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June 2019

In un anno 128mila italiani emigrati all’estero: 24mila minorenni

Non è solo per una questione educativa, o culturale, che ai ragazzi si deve parlare di migrazioni. Se è vero – ed è drammaticamente vero – che l’anno scorso degli oltre 128mila connazionali che hanno lasciato l’Italia, oltre 24mila erano minori (il 19,7% del totale, di cui il 16,6% con meno di 14 anni e ben l’11,5% con meno di 10), significa che la mobilità è entrata in maniera dirompente nell’esperienza di vita delle nuove generazioni. E che l’Italia, oltre che cervelli (altri 48mila, tra i 18 e i 34 anni, nel 2018) sta cominciando a perdere futuro. È solo un lato della medaglia: dall’altro c’è l’ormai assodata realtà dell’immigrazione, che alla scuola italiana offre oltre 850mila minori provenienti da 160 Paesi del mondo diversi. Una fonte di ricchezza inesauribile, e spesso ancora inesplorata.

I migranti di domani

Come raccontare il mondo ai piccoli, costruendo in loro la consapevolezza delle proprie radici, è la sfida che a partire dal 2017 ha deciso di raccogliere la Fondazione Migrantes. Con la pubblicazione, accanto al tradizionale Rapporto che ogni anno racconta le migrazioni italiane nel mondo, di un Rapporto junior. Il primo, nel 2017, fu presentato in una scuola di periferia di Roma, alla Magliana, coi ragazzi che non la smettevano di fare domande e i ricercatori che raccoglievano proposte e idee dei più piccoli. Il secondo, appena pubblicato, raccoglie quelle suggestioni e si prepara ad entrare in migliaia di altre scuole italiane (dentro e fuori i confini nazionali) con l’ambizione di raccontare e far capire cosa ha significato, e cosa significa, lasciare il proprio Paese in cerca di una vita migliore. Solo un male, o un danno? Forse, se si guarda al lungo elenco di motivazioni all’origine della scelta: dall’Italia – lo andiamo ripetendo da anni, a suon di rapporti e statistiche – si è obbligati a partire perché non si trova lavoro (o perché lo si trova ma non all’altezza delle proprie aspettative), perché non si riesce ad acquistare una casa, a costruire una famiglia. Eppure la libertà di circolazione è anche la grande conquista nata in seno all’Europa unita, e a un mondo sempre più globalizzato. Dove la mobilità, all’insegna del sogno di una vita migliore, dovrebbe assomigliare più un diritto che a un torto.

128.193 Gli italiani che sono andati all’estero nell’ultimo anno

11,5% la quota di minori con meno di 10 anni emigrata nell’ultimo anno dall’Italia

+64,7% l’aumento dei cittadini italiani residenti all’estero, tra il 2006 e il 2018

578mila Gli italiani presenti in Germania, il Paese che ha la più grande comunità di nostri connazionali in Europa

1,6 I milioni di nostri concittadini che hanno scelto di vivere in un altro Paese dell’Ue: dal 2016 al 2018,

Al centro le persone

Gli italiani, nella storia, hanno inseguito quel sogno con coraggio e tenacia straordinari. Ma molti, di questi italiani, sono sconosciuti. Non solo ai ragazzi. Così, sulle tracce di una mappa che si snoda tra le principali mete dell’esodo di connazionali – da Londra a Berlino, da Amsterdam a Parigi, da New York a Sydney fino a Wellington e Shanghai – ecco messe nere su bianco le piccole epopee sconosciute dell’italianità, scritte nella carne di chi le ha vissute: la storia di Cristina da Pizzano, la scrittrice caparbia che nel 1300 rivoluzionò la letteratura francese, quella di Michele Tofani, con la sua scommessa vinta sui gelati in Olanda, le invenzioni passate alla storia dell’ingegnere alla corte di Prussia Filippo di Chiese, l’’avventura straordinaria della prima scuola interreligiosa fondata a Tangeri da Elisa Chimenti e del medico ebreo in fuga dell’Italia fascista, Lucia Servadio Bedarida, che sempre in Marocco apriva la porta della sua clinica, anche ai tedeschi (e pensare che proprio dal Marocco che ci ospitava oggi proviene una delle comunità di migranti più radicate nel nostro Paese). Ritratti a cui si affiancano quelli corali delle balie friulane ad Alessandria d’Egitto, degli spazzacamini della Valvigezzo ad Amsterdam, dei banchieri lombardi e dei postini a Cracovia, delle prime case famiglia (i ‘bordi’) a New York. Piccoli o grandi pezzi di storia, il cui baricentro (la Chiesa ne fa un motto decisivo in questo tempo) è sempre e comunque la persona, raccontati con un linguaggio semplice, una grafica intuitiva. E con collegamenti ipertestuali pensati appositamente – senza paura – per la lettura con lo smartphone.

D’altronde ci si deve giocare il tutto per tutto, «le migrazioni non sono un fenomeno transitorio. Chi le studia ci dice che dureranno almeno 25-30 anni e che cambieranno la geopolitica mondiale, come è avvenuto in passato. C’è quindi la necessità di preparare questa realtà del futuro. E il mondo giovanile è fondamentale, perché sarà il mondo del domani» spiega il presidente della commissione Cei per le migrazioni e della Fondazione Migrantes, monsignor Guerino Di Tora.

La sfida educativa

Tornare ai piccoli, dunque, cioè a chi potrebbe partire o potrebbe accogliere domani, nell’ottica di un racconto che attiva percorsi didattici e personali innovativi, «con l’obiettivo di vivere l’avventura sempre sorprendente che è la scuola da un lato e l’incontro con il diverso dall’altro» aggiunge il coordinatore dell’Osservatorio nazionale intercultura del ministero dell’Istruzione, Vinicio Ongini. Da anni anima, a sua volta, di progetti innovativi nella scuola come quello presentato appena un mese fa dei libri tradotti dall’italiano all’arabo. Perché la lingua è il primo patrimonio che la mobilità mette a disposizione dei Paesi che incontra «e non a caso nelle prove Invalsi dell’anno scorso proprio i ragazzi nati fuori dall’Italia hanno dimostrato più competenze in inglese, esattamente come i nostri le dimostrano all’estero» spiega ancora Ongini. Il progetto di Migrantes e della Cei mira a questo, nella concretezza della vita a scuola: creare domande, sollecitare percorsi e confronti, non lasciare nulla di scontato sul fronte della richiesta di futuro dei ragazzi.

Viviana Daloiso (pubblicato da L’Avvenire il 16.06.2019)

Incontro con Luis Novaresio nell’Ambasciata d’Italia a Buenos Aires

Nella cornice del Ciclo “In-genio en el periodismo”, mercoledì 19 giugno, si è svolto nell’Ambasciata d’Italia un incontro con il giornalista Luis Novaresio, già condecorato il 1° giugno con l’Ordine della Stella d’Italia.

Novaresio, invitato a dare una conferenza, sul tema “Ser Italiano – Ser Periodista”, ha affermato che non sarebbe potuto essere giornalista se non fosse stato figlio d’italiani. La nave, presa anche dal padre per arrivare in Argentina, è il simbolo dell’insicurezza in cui accettavano di vivere i migranti. Da lì la sua necessità di conoscere la storia della sua famiglia perché come diceva Montanelli “Chi ignora il suo passato non ha futuro”.

La scuola Dante Alighieri l’ha aiutato a capire la sua origine e a trovare alcune risposte alle sue domande esistenziali, la curiosità ha caratterizzato il suo stile di vita e lo spinge nella sua professione, che esercita con la maggior rigorosità possibile ed ha indicato la vanità come principale difetto dei giornalisti attuali.

Edda Cinarelli

In Italia il peggior calo demografico degli ultimi 100 anni. Gli ultracentenari sono quasi 15mila

Gli italiani non hanno proprio più voglia di fare figli. E anche le coppie formate da almeno uno straniero iniziano a essere meno desiderose di creare famiglie. Dal punto di vista delle nascite l’Italia ormai non ha più una sola cifra preceduta da un segno più : sembra inesorabilmente e, forse, irrimediabilmente condannata al suo destino di Paese per anziani. Anzi. Per ultracentenari. Sono quasi 15mila gli ultracentenari residenti in Italia, cifra da record europeo assieme alla Francia. Al primo gennaio 2015 erano oltre 19mila, massimo storico. Al 1° gennaio 2019 si stimano circa 2,2 milioni di individui di età pari o superiore agli 85 anni, il 3,6% del totale della popolazione residente (15,6% della popolazione di 65 anni e oltre).

Molto diverso il capitolo delle nascite. Secondo i dati provvisori relativi al 2018 sono stati iscritti in anagrafe per nascita oltre 439mila bambini, quasi 140mila in meno rispetto al 2008, mentre dall’anagrafe sono stati cancellati poco più di 633mila, circa 50mila in più. È quanto emerge dal “Rapporto annuale 2019” diffuso oggi dall’Istat.

«La diminuzione delle nascite – spiega il rapporto – è attribuibile prevalentemente al calo dei nati da coppie di genitori entrambi italiani, che scendono a 359mila nel 2017 (oltre 121mila in meno rispetto al 2008)». Ma si sta esaurendo anche l’effetto positivo arrivato in questi anni dagli stranieri. Dal 2012 al 2017 sono oltre 8mila in meno i nati con almeno un genitore straniero che scendono sotto i 100mila. Rappresentano circa un nato su cinque, il 21,7% del totale.

Ma c’è anche un calo delle donne. Secondo l’Istat, la diminuzione della popolazione femminile tra 15 e 49 anni osservata tra il 2008 e il 2017 – circa 900mila donne in meno – spiega quasi i tre quarti della differenza di nascite che si è verificata nello stesso periodo, mentre la restante quota dipende dalla diminuzione della fecondità (da 1,45 figli per donna del 2008 a 1,32 del 2017).

La popolazione residente in Italia è in calo dal 2015. Secondo Giancarlo Bangiardo, presidente dell’Istat: «Siamo di fronte ad un vero e proprio calo numerico di cui si ha memoria nella storia d’Italia solo risalendo al lontano biennio 1917-1918, un secolo fa, un’epoca segnata dalla Grande Guerra e dai successivi drammatici effetti dell’epidemia di `spagnola». Al 1° gennaio 2019, l’Istat stima che la popolazione ammonti a 60 milioni 391 mila residenti, oltre 400mila residenti in meno rispetto al 1° gennaio 2015 (-6,6 per mille). La popolazione di cittadinanza italiana scende a 55 milioni 15 mila unità, mentre i cittadini stranieri residenti sono 5 milioni 234 mila (+43,8 per mille rispetto al 1° gennaio 2015). La stima dell’incidenza della popolazione straniera sul totale ha raggiunto l’8,7 per cento nel 2019 (era il 5,2 per cento nel 2008).

«Negli ultimi decenni – si legge – è cresciuto lo squilibrio nella struttura per età della popolazione e più recentemente si sono manifestati i segni della recessione demografica. In un contesto di bassa natalità come quello italiano, infatti, l’aumento della sopravvivenza ha portato a una prevalenza della popolazione anziana rispetto ai giovani, con squilibri intergenerazionali che possono costituire un fattore di rischio per la sostenibilità del sistema Paese».

Altro capitolo difficile: i giovani escono dalla famiglia di origine sempre più tardi . Al 1° gennaio 2018 i giovani dai 20 ai 34 anni sono 9 milioni 630 mila, il 16% del totale della popolazione residente; rispetto a 10 anni prima sono diminuiti di oltre 1 milione 230 mila unità (erano il 19% della popolazione al 1° gennaio 2008). Più della metà (5,5 milioni), celibi e nubili, vive con almeno un genitore.

Flavia Amabile (pubblicato da La Stampa il 20.06.2019)

Nasce in Italia la scuola di volo internazionale dei Top Gun

– Dalla scuola di volo di Galatina in provincia di Lecce, sede del 61esimo stormo dell’Aeronautica militare all’aeroporto di Decimomannu, in Sardegna, passando dal Salone aeronautico parigino di Le Bourget. È qui, infatti, che Aeronautica militare e Leonardo hanno presentato la IFTS, International Flight Training School, nuova scuola di volo internazionale per i Top gun di diversi Paesi.

L’accordo, prevede la preparazione dei primi allievi per la fase 2 e 3 dell’iter addestrativo presso il 61esimo Stormo – con il progressivo impiego, a partire dal 2020, del nuovo jet M-345 al posto degli Mb-339 – e lo spostamento al termine del 2021 della quarta fase, la cosiddetta Lift (Lead in to Fighter Training), che prepara all’impiego operativo i piloti militari destinati ai caccia – sulla base aerea di Decimomannu in Sardegna.

Ne ha parlato ad askanews Alessandro Profumo, Ad di Leonardo.

“Con la famiglia 345 e 346 – ha spiegato – noi copriremo tutti i diversi sillabi formativi, quindi 2, 3 e 4. Potremo formare piloti in modo completo, dalle esigenze relativamente basiche per arrivare alle più sofisticate”.

L’International Flight Training School rappresenterà un punto di riferimento a livello mondiale per l’addestramento avanzato dei piloti di diverse Forze aeree, rafforzando quanto già avviene a Galatina. Il nuovo sistema d’addestramento integrato, infine, oltre a garantire notevoli risparmi grazie al minor costo d’esercizio dei nuovi aerei, può contare anche su una commistione reale/virtuale per creare scenari complessi, interfacciando aerei veri con simulatori.

“Il cosiddetto Ground based training system – ha concluso Profumo – è fondamentale. Noi abbiamo una capacità d’integrazione del velivolo con simulatori a terra e altri piloti che operano da terra nei loro simulatori. Quindi il pilota che sta sull’aereo vede nel casco gli altri aerei come se fossero reali. Questo tende a minimizzare il costo di formazione”.

A Buenos Aires il congresso internazionale della Dante Alighieri

Dal 18 al 20 luglio si terrà a Buenos Aires l’83esimo congresso internazionale della Società Dante Alighieri.
Nel presentare l’appuntamento il presidente della Dante Andrea Riccardi ha affermato:

La Dante compie 130 anni e accoglie le sfide della globalizzazione, perché siamo convinti che la lingua italiana abbia un posto importante nel mondo di oggi. Molto ambizioso era l’animo del Manifesto fondativo del 1889: “Dovunque suona accento della lingua nostra, dovunque la nostra civiltà lasciò tradizioni, dovunque sono fratelli nostri che vogliono e debbono rimanere tali, ivi è un pezzo della patria che non possiamo dimenticare”. Scriveremo oggi in altro mondo queste parole, ma la nostra intuizione resta la stessa in condizioni tanto cambiate. La nostra prospettiva deve essere non solo quella di difendere la lingua italiana, bensì di internazionalizzare l’Italia partendo dalla nostra identità. Oggi la Società si presenta come uno strumento rinnovato per promuovere il mondo in italiano e l’Italia nel mondo.

Guardiamo a questo congresso internazionale, l’ottantatreesimo della nostra storia, con grande entusiasmo, dopo aver superato un delicato passaggio della storia della nostra Società, e abbiamo il desiderio di ascoltarci e dialogare per proseguire insieme il nostro impegno nella promozione e nella diffusione della cultura e della lingua italiane. Occorre creare sempre più una rete di simpatia attorno all’Italia e al mondo italiano. Lo scenario da realizzare è l’Italsimpatia: connettere “pezzi d’Italia” facendo sistema. Il prossimo Congresso si intitola Italia, Argentina, mondo: l’italiano ci unisce. Si colloca in quest’ottica e vedrà la partecipazione di numerosi interlocutori istituzionali. A Buenos Aires, sotto l’Alto patronato del Presidente della Repubblica Italiana, il Sistema Italia sarà rappresentato anche attraverso il programma governativo Vivere all’Italiana, con il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, e il Forum Italia-Argentina Cult&Tech, con ICE-Agenzia e il Ministero dello Sviluppo Economico.

Sono certo che – in questo e nei futuri percorsi – non mancherà l’apporto rilevante dei tanti amici del mondo in italiano, dei soci, degli studenti e dei docenti di lingua, delle scuole e dei comitati della Dante, delle imprese e degli “italsimpatici”, con un profondo spirito di appartenenza per rispondere alle impegnative sfide che ci attendono.

Le migliori mete di mare in Italia da visitare nel mese di giugno: dalla Riviera del Conero al Salento, passando per l’Isola d’Elba e il Cilento

Giugno è il mese ideale per iniziare ad esplorare la penisola, scegliendo località di mare che offrono la possibilità di rilassarsi immersi nella natura ma anche di godere del vasto patrimonio enogastronomico italiano. Da Numana, passando per il Salento e le isole, ecco la Top 10 delle mete di mare italiane per giugno 2019, stilata da Vologratis.
Al primo posto troviamo Numana, comune in provincia di Ancona. Si tratta della meta perfetta per chi, oltre ad un bagno nel litorale Bandiera Blu, vuole tuffarsi nel passato. La cittadina della Riviera del Conero, infatti, custodisce reperti conservati nell’Antiquarium: nel Museo Archeologico si possono ammirare ritrovamenti come la tomba della principessa picena che comprende anche una biga e un calesse. Segue in seconda posizione Palinuro, perla immersa nel Parco Nazionale del Cilento e nota per le sue splendide grotte. Da quella Azzurra, caratterizzata dal colore azzurro brillante dovuto alla presenza di un sifone subacqueo che sbuca sul lato opposto di punta della Quaglia, alla Grotta del Sangue, chiamata così per via delle pareti di colore rosso sangue rappreso, fino alla Grotta dei Monaci e alla Grotta delle Ossa. Gradino più basso del podio per Tropea, un’oasi di mare cristallino con fondali ricchi di flora e fauna. Il mare della Calabria è perfetto per indossare una muta da sub e prendere parte alle escursioni in barca che prevedono immersioni guidate.

Sicilia fuori dal podio con San Vito Lo Capo, ideale per il climbing: la località mette a disposizione uno dei più grandi comprensori d’arrampicata di tutto il Sud Italia. Segue Policoro, in provincia di Matera, dove oltre al mare della Basilicata si può fare birdwatching all’interno dell’oasi WWF Policoro Hearklea, nella Riserva naturale orientata Bosco Pantano di Policoro. Sesto posto per il Golfo di Orsei che vanta un litorale con insenature e spiagge di finissima sabbia da raggiungere in barca e un complesso naturalistico di oltre 40 chilometri. In settima posizione troviamo Cesenatico, tra le migliori destinazioni per la famiglia, con spiagge attrezzate con giochi, nursery e animazione dedicata ai più piccoli.

Si torna in Sicilia per l’ottava posizione: precisamente sull’Isola di Lampedusa, una delle più note tra le isole Pelagie che ospita la riserva naturale e l’Isola dei Conigli, dove le tartarughe marine depongono le uova nel periodo estivo. Nono posto per l’Isola d’Elba, dove mare e montagna trovano il connubio perfetto. A chiudere la top ten delle migliore mete di mare per giugno 2019 è il Salento, terra che oltre a regalare spiagge dalla sabbia bianca, offe la più alta concentrazione di vini DOC della Puglia.

Petralia Soprana è il borgo più bello d’Italia, da anni vince sempre la Sicilia

Petralia Soprana (Pa). È Petralia Soprana il Borgo più bello d’Italia 2019: il Comune, che fa parte del Parco delle Madonie, si è aggiudicato il titolo battendo Sulmona nella gara «Borgo dei borghi» tra 60 borghi italiani. Si tratta del quarto titolo siciliano: per tre anni consecutivi, infatti, la Sicilia si era già aggiudicata il premio: nel 2014 con Gangi (altro comune delle Madonie), nel 2015 con Montalbano Elicona (Messina) e nel 2016 con Sambuca di Sicilia (Agrigento), registrando effetti positivi sul turismo.

La giuria del Borgo più bello d’Italia 2019, realizzato dall’omonimo Club nato su impulso dell’Anci (Associazione Nazionale Comuni Italiani) in collaborazione con la trasmissione di Rai 3 «Alle falde del Kilimangiaro», era composta da Philippe Daverio, Filippa Lagerback e Mario Tozzi. Per il 2018 era stata premiata Gradara (Pu).

Giusi Diana (pubblicato da Il Giornale dell’Arte numero 393, gennaio 2019)

Il «Pataccone»: storia della moneta coniata in Argentina per uscire dalla crisi

«Patacón», così lo battezzarono gli argentini al culmine della grande crisi fra il 2001 e il 2002. O anche, «cuasimoneda»: una pioggia di mini-buoni che avrebbero dovuto saldare i debiti pubblici, affiancando il «peso», la valuta nazionale disastrata. Ma prima ancora, nel 1908 a Bielefeld, in Germania, c’era stato il «Bethel-mark», valuta parallela usata per le compravendite in una grande istituzione che assisteva (e ancora assiste) malati di mente, epilettici, senzatetto, giovani con problemi sociali. O, sempre in Germania nel 1919, la «moneta fisiocratica», un foglietto rosa valido per un anno che tranquillizzava i suoi possessori con un’annotazione sul frontespizio: «Questa moneta vale nel commercio, nelle casse dello Stato e davanti ai tribunali come valore nominale a seconda del mese indicato». E poi: «dicembre 90 marchi, settembre 92 marchi, aprile 97, gennaio 99,50…».

I mini-bot per pagare i debiti
I minibot sono stati proposti dalla Lega, soprattutto dai consiglieri economici di Salvini, Claudio Borghi e Alberto Bagnai, quest’ultimo autore di un noto saggio sul tramonto dell’euro. Oggi il nome di Bagnai circola come quello di futuro Ministro per gli Affari Europei, insieme al sospetto che i minibot siano il primo passo per l’uscita dall’euro. Va detto che l’idea, presente nel contratto di governo, era stata avallata anche dagli altri partiti, Pd compreso. Mario Draghi li ha definiti «valuta illegale o debito», e hanno vari precedenti più o meno simili nella storia: valute parallele, appunto, germogliate in momenti di crisi, destando a volte grandi speranze, spesso grandi timori.

Utilità del patacòn argentino
L’Argentina degli anni Duemila è la fonte più generosa di esempi. A cominciare dal «patacòn», sostantivo che in spagnolo ha tre significati: un saporoso fritto di banane verdi popolare in tutta l’America latina e nei Caraibi; una montagna tristemente celebre di rifiuti a Panama City; e un tipo di monete e obbligazioni emesse appunto in Argentina e in altri Paesi. Per essere precisi, con il pataccone argentino si intende un buono d’emergenza tecnicamente chiamato anche «Lettera di tesoreria per la cancellazione delle obbligazioni». Banconota rosa che portava l’effigie di Dardo Rocha, governatore della capitale morto nel 1921, visionario dei lavori pubblici divenuto famoso per la sua promessa iniziale: «Dovrò costruire un chilometro di strade per ogni giorno del mio governo». Il pataccone spuntò per la prima volta nella provincia di Buenos Aires. Poi dilagò anche nella capitale. Fu un «male necessario», spiegò la legge, perché gli enti pubblici non potevano più pagare stipendi e lavori, e le imprese non pagavano dipendenti e fornitori. Un «patacòn» equivaleva per convenzione a un peso convertibile. Storicamente, richiamava nel nome i «patacònes», monete d’argento tagliate con le forbici coniate alla fine dell’Ottocento. Ma nella realtà del ventunesimo secolo, era ben altra cosa. Il creditore veniva saldato, lo Stato garantiva, e tutti i cittadini si spartivano il debito. La nuova valuta era un sosia del denaro vero. E anche la parola stampata sulla sua carta era «peso», non pataccone. Venne emesso in tagli da 1,2,5,10, 20, 50, 100, e anche da 50 «centavos» o centesimi. Ma non salvò il galeone dello Stato pieno di falle. Fu solo la lenta ripresa economica, dal 2003, a riaggiustare almeno provvisoriamente la rotta.

2016: il pataccone va al macero
Prima di allora, tutti i governi provinciali argentini e anche quello nazionale avevano inventato i loro buoni d’emergenza. Nella provincia di Cordoba, ancora nel 2005, circolava la Lecop o «Lettera di cancellazione dei debiti provinciali», per «l’estinzione delle obbligazioni di qualsiasi natura nel settore pubblico». La provincia di Tucumàn aveva già emesso negli anni ’60 i «Certificati di cancellazione del debito nazionale», e nel 1987 gli «Australes di Cancellazione dei debiti», con scritta sul retro: «Che il federalismo alimenti, rossa, e ardente, la cellula della Nazione». Nel 2006, lo Stato cominciò a riscattare quel denaro «fittizio». Nel 2016, la Banca della Provincia di Buenos Aires annunciò che avrebbe mandato al macero 240 tonnellate di patacconi, stivati nei suoi forzieri in cumuli alti fino a due metri: teoricamente erano pari a 176 milioni di dollari, nella realtà erano carta straccia. Però ogni volta che le stampatrici erano entrate in funzione per sfornarli, il debito pubblico era salito inesorabilmente.

Le monete parallele tedesche
Da un continente all’altro, la disperata Germania di Weimar era fonte continua di esperimenti con le valute parallele. Dopo la crisi di Wall Street, il mondo tremava; a Berlino, due tazze di caffè potevano costare 10.000 marchi al momento dell’ordinazione, e 14.000 cinque minuti dopo, al momento del pagamento. Il marco del Reich era fuori controllo. Un migliaio di imprese, riunite in un’associazione di scambio, crearono il «wara», («valuta stabile», sperando che si estendesse alle finanze statali. Valeva, in teoria, un vecchio marco del Reich, ed era disponibile in mini-banconote da 1,2,5,10 o da mezzo «wara», 50 pfenning o centesimi. Il suo principio di base era l’abolizione dello strumento dell’interesse. Un primo esperimento fu compiuto con una miniera fallita di carbone. Si supponeva che i minatori in bolletta accettassero il «wara» dal loro padrone, i panettieri dai minatori, i mugnai dai panettieri, i banchieri o gli agenti delle tasse dagli uni e dagli altri, e così via. Ma il problema era: come convincere tutti costoro a rischiare, a entrare nel gioco? Facile: non conveniva tenersi la nuova valuta in tasca, perché ogni mese perdeva un centesimo del suo valore nominale. Il tutto fu chiamato «esperimento di libera economia», ed ebbe un certo successo. Finché la Banca Centrale, nel 1931, vietò «l’esperimento».

Dall’Austria alla Svizzera: le «monete deperibili»
Nello stesso anno anche a Woergl, un cittadina del Tirolo austriaco, un ex meccanico delle Ferrovie eletto con un sorteggio dal consiglio comunale sperimentò una «moneta deperibile» (così la chiamarono) simile al «wara»: ogni mese perdeva un poco del suo valore, se non si apponeva il bollino di conferma. Imprese, operai e impiegati venivano pagati con «certificati di lavoro», accettati dai commercianti, ripartirono i lavori pubblici. Anche Vienna si interessò all’esperimento, che però fu troncato nel 1933: solo la Banca di Stato poteva batter moneta. Dal 1934, invece, a Zurigo operò il «Wir», una valuta complementare per piccole e medie imprese.

Usa anni 30: il «secondo dollaro»
Negli Usa si pensò a un «secondo dollaro» negli anni Trenta, dopo il crollo di Wall Street e le chiusure di molte banche. Con 12 milioni di disoccupati, nacque il «denaro della depressione»: imprese e negozi si misero a stampare in proprio buoni, obbligazioni o certificati di cancellazione del debito. In alcune regioni americane, fu quasi il ritorno al baratto: gente che comprava o vendeva con «monete» di legno, cartone, piombo, con banconote di stoffa e perfino gusci di conchiglie o pergamene realizzate con pelle di pesce. Il governo federale valutò la possibilità di un «secondo dollaro» per alleggerire gli strati più indebitati della società. Ma l’idea fu subito abbandonata.

Italia: la breve vita delle valute regionali
Novant’anni dopo, almeno in Italia, il nuovo dibattito sui minibot risveglia quello antico sulle valute parallele. In attesa delle decisioni a livello nazionale, ci sono già delle forme di valute regionali: per primo nel 2010 è nato il «Sardex», in Sardegna, giudicato «un’istituzione» dalla London School of Economics. E poi il «Valdex» in Val d’Aosta, il «Tibex» nel Lazio, il «Venetex» in Veneto, il «Piemex» in Piemonte, il «Felix» in Campania, e così via. E c’è chi ricorda la valuta creata nel 2000 a Guardiagrele, in Abruzzo, da Giacinto Auriti. Era stata battezzata «Simec», o «Simbolo econometrico di valore indotto». La Guardia di finanza la sequestrò. Ma ha ancora dei seguaci sul Web che la invocano: «La sovranità monetaria va attribuita allo Stato, come quarto potere costituzionale, e tolta alla banca centrale. La proprietà della moneta va attribuita al Popolo, che per convenzione sociale le attribuisce il valore: ognuno infatti accetta moneta in previsione di poterla spendere a sua volta». Ma resta un problema, come ha insegnato l’Argentina: e se quella moneta è un «patacòn»?

Milena Gabanelli e Luigi Offeddu (pubblicato da Il Corriere della Sera il 15.06.2019)

La storia della penna a sfera tra Bich e Birò

Il barone Marcel Bich, originario di una nobile e decaduta famiglia valdostana, nacque a Torino nel 1914. Ancora studente si improvvisò venditore porta a porta di lampadine e rappresentante di inchiostri. Il 1953 fu l’anno della svolta: Marcel Bich incontrò l’ungherese Laszlo Joseph Birò.

Pare che questi mutuò l’idea di una penna a sfera osservando gli argentini marchiare il bestiame. Mentre alcuni uomini bloccavano la mucca, altri ne imprimevano un marchio che ne identificava la proprietà con una grossa “sac a poches” piena di inchiostro indelebile, sulla cui punta roteava una biglia metallica.

Un’altra versione parla di Birò che osservando dei bambini giocare a biglie notò come queste rotolassero nel fango impregnandosene e lasciando una scia liquida. Ma nonostante anni di esperimenti egli non si riuscì mai ad ottenere un prodotto economico. Oltretutto la penna si dimostrava anche poco affidabile in quanto perdeva inchiostro o scriveva raschiando il foglio.

Bich che era già nel settore dal 1945 con una piccola azienda produttrice di matite e penne stilografiche rimase colpito dalla penna a sfera di Birò e ne acquistò i diritti. Intuì che forse il problema era da ricercarsi nella densità dell’inchiostro e nel metallo della sfera che non doveva deformarsi. La soluzione la trovò nel carburo di tungsteno. La penna fu quindi lanciata sul mercato: il barone la chiamò “Bic”, tralasciando l’acca. Avviò una campagna pubblicitaria reclamizzando il prodotto perfetto ad un prezzo accessibile a tutti.

Ma la nuova penna nonostante il basso prezzo di vendita, ventinove centesimi poi ulteriormente ritoccato al ribasso non riusciva ad imporsi: il prezzo così basso non la rendeva oggetto di culto e perciò non riusciva a scalfire il mercato della stilografica. I rivenditori poi avevano un misero guadagno e quindi non erano interessati a spingere il prodotto.
Ma la perseveranza del barone diede i suoi frutti e poco alla volta la Bic ottenne un successo mondiale. L’obiettivo di Bich era vedere diecimila penne al giorno, tre anni dopo il lancio arrivò a duecentocinquantamila.

Tre furono le caratteristiche vincenti: la possibilità di scrivere con qualsiasi inclinazione, il modello “cristal” che consentiva di sapere a che punto era la carica di inchiostro e la forma esagonale, che permetteva alla penna di rimanere ferma anche sui piani inclinati. Successivamente con l’acquisizione della Biro-Swan e il 60% dell’americana Waterman venne eliminata la concorrenza.

Nel 2004, a dieci anni dalla sua morte, il Comune di Torino fece affiggere una targa con dedica sull’elegante facciata del palazzo di corso Re Umberto, 60: “Qui nacque Marcel Bich. Semplificò la quotidianità della scrittura”.

La morte de Anita Garibaldi

Agosto 1849, caduta la Repubblica Romana, Garibaldi era in fuga, con i pochi uomini che gli erano rimasti e con Anita in gravissime condizioni per la febbre malarica. Lasciata San Marino dove si era rifugiato inseguito dalle truppe austriache e papaline, cercava di arrivare alla costa romagnola per poi raggiungere Venezia. Braccato dagli inseguitori,trovò alla fine rifugio nella fattoria Guiccioli, in località della Mandriole nei pressi di Ravenna.

Il fattore Ravaglia e la moglie assieme al medico Piero Nannini prestano i soccorsi alla morente Anita che, come scriverà poi Garibaldi nelle sue memorie, cessò di vivere tra le sue braccia alle ore 7 e tre quarti del 4 agosto 1849: “Le presi il polso più non batteva. Avevo davanti il cadavere di colei che io tanto amava. Piansi amaramente la perdita della mia cara Anita. Raccomandai alla buona gente che mi circondava di dare sepoltura a quel cadavere e mi allontanai sollecitato dalla stessa gente di casa che io compromettevo rimanendo più tempo.”

Qualche giorno dopo il 10 agosto 1849 , una ragazzina del luogo, rientrando nella propria casa nei pressi del campo “La Pastorara” che sorgeva a breve distanza dalla fattoria Guiccioli, inciampò in qualcosa che, con gran raccapriccio e paura s’accorse trattarsi di una mano che emergeva da uno strato di sabbia, scarnificata perché probabilmente divorata dagli animali. Intervenne la polizia del luogo e le autorità competenti. Venne dissotterrato un cadavere.

“Trattasi del cadavere di Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, meglio nota come Anita Garibaldi, incinta e moglie del ricercato Giuseppe Garibaldi che tra l’altro presenta segni non equivoci di sofferto strangolamento”, scriverà nel suo rapporto il delegato della polizia pontificia Zeffirino Socci in seguito all’esame autoptico eseguito dal medico legale, il professore Luigi Foschini primario dell’ospedale di Ravenna.

Questi nel suo referto aveva dichiarato: “Ispezionate e aperte le cavità toracica e addominale, si rilevò essere pregnante di un feto sessimestre passato pure esso in putrefazione, come lo erano tutti i visceri del cadavere medesimo. Nel collo si rilevò un segno di depressione nelle sue parti posteriori e laterali, come vi si trovò rotta la trachea, divisa totalmente nei suoi anelli e le cartilagini componenti la laringe anche esse disunite. Fu osservato avere gli occhi sporgenti, così come sporgente era la lingua per oltre un pollice. Questi marcati segni somministrarono al perito fiscale argomento per giudicare che l’individuo aveva cessato di vivere a causa di strozzatura.”

Le autorità procedettero all’arresto del fattore Ravaglia e di sua moglie sotto l’accusa di “correità e complicità nel supposto omicidio dell’incognita donna del ben noto Garibaldi e di ospitalità al ricercato”. Ma dopo qualche giorno le cose cambiarono. Alla morte naturale di Anita erano presenti almeno venti persone e lo stesso medico legale Fuschini, dopo aver conosciuto le circostanze della morte, precisò che i segni riscontrati sul cadavere potevano anche essere conseguenza dell’inoltrata putrefazione.

Si procedette quindi alla liberazione dei Ravaglia.
Si mormorò allora che il tutto fu messo a tacere per evitare lo scandalo che sicuramente avrebbe coinvolto il marchese Guiccioli, persona di grande prestigio e notabile del luogo. L’unico che continuò ad accreditare la tesi dell’omicidio fu l’ispettore Zeffirino Socci che continuò ad indagare ed a inviare periodici rapporti sulla presunta morte per strangolamento di Anita Garibaldi, ma non ottenne nulla.

Per i Ravaglia, finiti i guai giudiziari, continuarono quelli con il più terribile brigante romagnolo di quei tempi Stefano Pelloni detto il Passator Cortese, il quale,convinto che i Ravaglia si fossero impossessati di un tesoro abbandonato da Garibaldi in fuga,cercò in tutti i modi di far loro rivelare, con le buone e con le cattive, il luogo dove avevano nascosto l’ipotetico tesoro.

Fonte: BBC History

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