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February 2021

Congo: l’Italia in lutto

La Presidenza della Repubblica, il Primo Ministro e il Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale hanno espresso in queste ore il loro sgomento per il “vile attacco” che poche ore fa, nei pressi della città di Goma, in Congo, ha ucciso l’Ambasciatore d’Italia a Kinshasa, Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e il loro autista.

Appresa la notizia, il Capo dello Stato, Sergio Mattarellaha scritto al numero 1 della Farnesina esprimendo il suo più sentito cordoglio e spiegando come in queste ore il Paese sia “in lutto”.

Di “immenso dolore” per la scomparsa di questi “due servitori dello Stato” ha parlato invece il Ministro degli Affari Esteri, Luigi Di Maio.

Anche il Premier, Mario Draghiha espresso il suo cordoglio per la scomparsa del diplomatico, del militare e dell’autista, spiegando di “seguire con massima attenzione gli sviluppi” della situazione. Al loro cordoglio si è aggiunto via via quello di altri rappresentanti delle istituzioni e del Governo.

“Profondo dolore” è stato espresso dalla presidente del Senato Elisabetta Casellati: “l’Italia non dimenticherà mai i suoi “costruttori di pace”, caduti mentre cercavano di portare sicurezza e supporto ai popoli oppressi. Occorre però che la condanna nei confronti dei responsabili di questo ignobile atto sia accompagnata dall’impegno della comunità internazionale a combattere con ogni mezzo qualunque forma di violenza in quei territori. Ai familiari delle vittime giunga la mia vicinanza e il mio cordoglio”.

Di agguato “vile e barbaro” parla il Ministro della Difesa Lorenzo Guerini esprimendo “profondo dolore per l’attacco nel quale oggi hanno perso la vita l’Ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci. Alle famiglie delle vittime, all’Arma dei carabinieri il più profondo cordoglio, vicinanza e solidarietà a nome mio e di tutta la Difesa”.

“Oggi nell’attacco al convoglio ONU nella Repubblica democratica del Congo hanno perso la vita due servitori dello Stato. Un vile e barbaro agguato che l’Italia, fermamente impegnata con la comunità internazionale, condanna con forza. Alle famiglie dei nostri connazionali e di tutto il personale delle Nazioni unite coinvolto va la nostra incondizionata riconoscenza e affetto”, conclude Guerini. “Siamo vicini e condividiamo il dolore delle famiglie per la perdita dei loro cari”.

“Dolore e sgomento” sono stati espressi anche dal Presidente della Camera, Roberto Fico, che invia alle famiglie dell’ambasciatore Attanasio e del carabiniere Iacovacci “la vicinanza e il cordoglio di Montecitorio e di tutte le istituzioni”.

Così ha fatto anche il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, che ha inviato un breve messaggio di cordoglio ai ministri Di Maio e Guerini “per l’uccisione dell’ambasciatore italiano in Congo, Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e di un autista in servizio presso la rappresentanza diplomatica di Kinshasa”. La responsabile del Viminale, conclude la nota, “è vicina alle famiglie delle vittime, al Corpo diplomatico e all’Arma dei carabinieri”. (aise)

Fonte: Congo: l’Italia in lutto (aise.it)

I primi 90 anni dell’Amerigo Vespucci

Era il 22 febbraio 1931 il giorno del varo della nave scuola Amerigo Vespucci, che oggi, dunque, festeggia i suoi primi 90 anni di attività presso gli stabilimenti nautici di Castellammare di Stabia, in Campania. “Non chi comincia ma quel che persevera”. Questo il motto del veliero che da 90 anni è il fiore all’occhiello della Marina Militare italiana. Indiscussa “Signora del mare”, l’Amerigo Vespucci rappresenta l’eccellenza italiana nel mondo.

“Oggi un traguardo storico che ci rende più che mai orgogliosi”, ha commentato il Ministro della Difesa, Lorenzo Guerini.

Nata come Regia nave scuola dell’allora Regno d’Italia con Re Vittorio Emanuele III, da sempre è uno dei simboli della Marina Militare nel Paese, immagine inconfondibile che risalta nei porti e nelle acque della nostra Nazione. Simboleggia l’Italia nel mondo, attirando migliaia di persone in ogni porto per ammirare lo stile italiano che sfoggia e rappresentando un nostalgico “pezzo d’Italia” per tutti i nostri connazionali all’estero.

Il compito più importante che nave Vespucci porta avanti fin dal suo varo è l’addestramento di tutti gli ufficiali di Marina, che al termine del primo anno di Accademia vivono su questo “veliero” la loro prima esperienza d’imbarco.

Tranne rarissime eccezioni dovute a lavori straordinari di ammodernamento, ogni estate gli allievi della prima classe dell’Accademia Navale di Livorno sono imbarcati su nave Vespucci mettendo in pratica quanto studiato sui libri e nelle classi dell’Istituto di formazione.

I 90 anni di nave Vespucci rappresentano un altro record di questa nave, come la risalita del Tamigi di Londra o l’uscita dal canale navigabile di Taranto, entrambi eccezionali eventi velici.

È già all’orizzonte la nuova campagna d’istruzione e gli allievi della attuale prima classe dell’Accademia saranno presto chiamati ad imbarcare.

L’attuale motto della nave è “Non chi comincia ma quel che persevera”, frase attribuita a Leonardo Da Vinci e che ben rappresenta l’ideale che spinge in mare i 250 membri dell’equipaggio a cui si sommano i circa 130 uomini e donne dell’Accademia Navale. (aise)

Fonte: I primi 90 anni dell’Amerigo Vespucci (aise.it)

Covid Argentina, vaccino ad uso personale: ministro Salute costretto a dimettersi

Il ministro della Salute argentino Ginés González García si è dimesso in seguito allo scandalo sulle vaccinazioni contro il Covid-19, che lo ha visto riservare circa 3mila dosi per uso personale al fine di far immunizzare in via preferenziale i suoi alleati politici. “Presento le mie dimissioni da ministro della Salute su sua espressa volontà”, ha scritto Garcia in una lettera indirizzata al presidente Alberto Fernandez. Il sottosegretario Carla Vizzotti ha giurato come nuovo Ministro il pomeriggio del sabato 20 febbraio.

Il caso è scoppiato quando il giornalista filogovernativo Horacio Verbitsky ha rivelato, in una trasmissione radiofonica, di essere stato contattato dal ministero della Salute per farsi vaccinare poco dopo una telefonata con Garcia. Per via dell’età, del lavoro e dei rischi personali, non sarebbe dovuto ancora essere il suo turno. Secondo quanto riferito, anche l’influente sindacalista Hugo Moyano sarebbe tra coloro a cui è stata somministrata una dose prima del tempo, insieme alla moglie e il figlio di 20 anni.

In Argentina viene utilizzato prevalentemente il vaccino russo Sputnik V, ma sono di recente arrivate le prime dosi di AstraZeneca. Sono finora state vaccinate 390mila persone, su 45 milioni di abitanti. Dall’inizio della pandemia, il paese sudamericano ha segnalato circa 2 milioni di casi e 51 mila decessi.

Fonte: Covid Argentina, vaccino ad uso personale: ministro Salute costretto a dimettersi (adnkronos.com)

Draghi e la questione del debito

La pandemia e il 2020 hanno cambiato in modo profondo, forse definitivo, alcune idee di un certo liberismo economico, che è stato dominante nei passati quattro decenni.

Per far fronte all’emergenza, si è dovuto mettere da parte l’approccio del rigore a tutti i costi e dell’austerità come toccasana dei bilanci. Si è riscoperto, invece, il ruolo centrale e fondante dell’economia reale e del credito produttivo, quale motore di sviluppo, di avanzamento tecnologico e anche di ampliamento dell’occupazione.

Molte annose questioni, come quella riguardante il debito pubblico degli Stati, dovranno, quindi, essere rivisitate e affrontate con metodologie e programmi diversi. Ciò dovrebbe essere ovvio per tutti. Particolarmente dopo che nel 2020 l’emergenza sanitaria, economica e finanziaria ha dettato l’agenda ai governi costringendoli a mettere in campo aiuti e stimoli fiscali per 12.000 miliardi di dollari. E le stesse banche centrali sono state costrette a creare almeno 8.000 miliardi di nuova liquidità. Ovviamente, sono tutte risorse create contraendo nuovi debiti.
Secondo l’Istituto di finanza internazionale di Washington, il debito aggregato, pubblico e privato, che era già tre volte il Pil mondiale, nel 2021 dovrebbe mediamente aumentare del 20% nelle cosiddette economie avanzate e in quelle di altri Paesi emergenti.

Mario Draghi, sorprendendo molti, in verità anche noi, è stato forse l’economista che, avendo avuto ruoli istituzionali assai rilevanti a livello mondiale, per primo ha riconosciuto il cambiamento di paradigma.

Al Meeting di Rimini, tenutosi il 18 agosto dello scorso anno, in merito al debito disse: ”La ricostruzione, in cui gli obiettivi di lungo periodo sono intimamente connessi con quelli di breve, è essenziale per ridare certezza a famiglie e imprese, ma sarà inevitabilmente accompagnata da stock di debito destinati a rimanere elevati a lungo. Questo debito, sottoscritto da Paesi, istituzioni, mercati e risparmiatori, sarà sostenibile, continuerà cioè a essere sottoscritto in futuro, se utilizzato a fini produttivi, ad esempio investimenti nel capitale umano, nelle infrastrutture cruciali per la produzione, nella ricerca ecc. se è cioè debito buono. La sua sostenibilità verrà meno se, invece, verrà utilizzato per fini improduttivi, se sarà considerato debito cattivo”.

A dire il vero, Draghi su questo tema era già intervenuto all’inizio del lockdown. Nella sua lettera, pubblicata il 25 marzo dal Financial Times, affermava: “I diversi paesi europei hanno strutture finanziarie e industriali diverse, l’unico modo efficace per rispondere immediatamente a un crack dell’economia è quello di mobilitare completamente i loro interi sistemi finanziari. E deve essere fatto immediatamente, evitando ritardi burocratici… I livelli del debito pubblico saranno aumentati. Ma l’alternativa – una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi della base fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia ed eventualmente per il credito pubblico”.

Giustamente, egli ha sollecitato un modo differente di pensare e di intervenire. “Di fronte a circostanze impreviste, un cambiamento di mentalità è necessario in questa crisi come lo sarebbe in tempo di guerra”, ha affermato, aggiungendo che “ci deve essere di ispirazione l’esempio di coloro che ricostruirono il mondo, l’Europa, l’Italia dopo la seconda guerra mondiale. Si pensi ai leader che, ispirati da J.M. Keynes, si riunirono a Bretton Woods nel 1944 per la creazione del Fondo Monetario Internazionale”.

Questa è la ragione e l’ineludibile necessità di riflettere in modo nuovo e innovativo anche sulla gestione e su una possibile riduzione, se non cancellazione, di almeno parte del debito pubblico. Nei mesi scorsi, in verità, ci sono state delle proposte rilevanti.

Recentemente oltre 100 economisti, soprattutto francesi, italiani e spagnoli, hanno scritto un manifesto in cui si sostiene che “Il debito detenuto dalla Bce si può e si deve annullare”. Il 25% del debito pubblico europeo è detenuto dalla Banca centrale europea, cioè una quota di debiti pari a circa 2.500 miliardi di euro, che i cittadini europei devono a loro stessi.

Nella storia, la cancellazione del debito non è sempre stata un tabù: alla Conferenza di Londra del 1953, per esempio, i partecipanti, guidati dagli Stati Uniti, decisero la cancellazione di due terzi del debito pubblico della Germania, che iniziò così il suo percorso di ripresa e di prosperità.

La loro proposta è chiara. I paesi europei e la Bce siglano un accordo in cui quest’ultima si impegna a cancellare il debito pubblico che detiene (o a trasformarlo in debito perpetuo senza interessi), mentre gli Stati si dovrebbero impegnare a investire lo stesso importo nella ricostruzione ambientale e sociale. Ricetta semplice, impegnativa ed efficace.

Vi sono anche altre proposte simili, come quella che prevede che i debiti accesi per far fronte alla crisi attuale siano nella forma di titoli irredimibili, senza scadenza e senza interessi, garantiti dalla Bce.

Del resto, anche un grande paese come il Giappone ha dovuto e deve fare i conti con la sua situazione debitoria. Pur essendo un paese avanzato e tecnologizzato forse più dell’Europa, ha il più grosso debito pubblico al mondo, pari a 252% del suo Pil. Nel 2020 ha aumentato il suo bilancio del 20% attraverso l’emissione di nuovi titoli di Stato. Ma in Giappone oltre il 40% di tutto il debito pubblico è in mano alla Banca centrale e il resto, in maggioranza, è posseduto dalle banche e dalle famiglie giapponesi. Non è in una situazione idilliaca, ma controllando il suo debito, il Giappone non è soggetto a pressioni esterne o a speculazioni da parte dei mercati internazionali.

In conclusione, la cosa decisiva è che il “debito buono” venga utilizzato per la crescita economica. In tal modo aumentando il denominatore, il tasso debito/Pil inevitabilmente si abbassa. Ma non è la frazione matematica che interessa. Con la ripresa economica si possono finalmente affrontare i problemi reali delle famiglie e delle imprese.

Il fatto che Draghi, nel frattempo, sia diventato capo del governo del nostro paese ci fa ben sperare. Certo, anche noi, come cittadini e come singoli, dovremmo modificare i nostri comportamenti, ispirandoli al rispetto delle leggi e dei valori costituzionali. (mario lettieri*\paolo raimondi**\aise)

* già sottosegretario all’Economia
** economista

Fonte: Draghi e la questione del debito (aise.it)

Nasce il governo Draghi

Mario Draghi è il nuovo Presidente del Consiglio italiano. L’ex governatore della Bce è salito alle 19 al Quirinale e ha sciolto la riserva consegnando al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella la lista dei Ministri. Tante le conferme, tra cui quella di Di Maio alla Farnesina, molte le donne che compongono l’Esecutivo più rosa di sempre.

Il nuovo governo giurerà sabato 13 alle 12.00.

Ministri senza portafoglio

Federico D’Incà, confermato ai Rapporti con il Parlamento
Vittorio Colao, alla innovazione tecnologica e transizione digitale
Renato Brunetta, Pubblica Amministrazione
Maria Stella Gelmini, affari generali e autonomie
Mara Carfagna, politiche per il Sud e coesione sociale
Fabiana Dadone, politiche giovanili
Elena Bonetti, pari opportunità e famiglia
Erika Stefani, Ministero per le disabilità
Massimo Garavaglia, coordinamento delle iniziative del settore del turismo per cui sarà preposto un nuovo ministero con portafoglio

Ministri con portafoglio

Affari esteri e cooperazione internazionale Luigi Di Maio
Interno Luciana Lamorgese
Giustizia Marta Cartabia
Difesa Lorenzo Guerini
Economia Daniele Franco
Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti
Politiche agricole Stefano Patuanelli
Ambiente – ministero che si chiamerà per la transizione ecologica e che assorbirà le questioni relative alla politica energetica ora di competenze di altri ministeri Roberto Cingolani (il ministro presiederà anche il comitato interministeriale di coordinamento di tali attività)
Infrastrutture Enrico Giovannini
Lavoro e politiche sociali Andrea Orlando
Istruzione Patrizio Bianchi
Università Cristina Messa
Beni culturali e turismo – che diventerà Ministero della cultura – Dario Franceschini
Salute Roberto Speranza .

Nella prima riunione del Consiglio dei Ministri, Draghi proporrà come sottosegretario di stato alla presidenza Roberto Garofoli(aise) 

Fonte: Nasce il Governo Draghi (aise.it)

Museo dell’Emigrazione Italiana: al via i lavori

Sono partiti i lavori per l’adeguamento funzionale e tecnologico dell’antico edificio della Commenda di San Giovanni di Prè, a Genova, dove verrà ospitato il Museo Nazionale dell’Emigrazione Italiana (MEI), che nasce dalla forte volontà di restituire al grande pubblico, nazionale e internazionale, la narrazione di un patrimonio vastissimo e diversificato come quello legato alla storia dell’emigrazione italiana, un patrimonio fisicamente diffuso in numerose località, italiane ed estere, custodito da enti, istituzioni statali e locali, archivi, musei, centri di studio e ricerca, associazioni di emigrati.

Gli interventi, per un importo di circa 5,3 milioni di euro (di cui 300 mila arrivano da Fondazione San Paolo per la progettazione; 3 milioni dal MIBACT, nell’ambito del programma Grandi Progetti Beni Culturali e 2 milioni dal Patto per Genova, siglato tra Comune e Governo), riguardano l’adeguamento funzionale, il restauro e il risanamento conservativo della Commenda e dureranno circa un anno.

L’emigrazione è un tema fortemente identitario per Genova ed è strettamente legato anche all’imponente edificio scelto: la Commenda di Prè, un capolavoro di arte medievale, da sempre animato da passaggi, viaggiatori, navi. La Commenda, fin dal XII secolo era ricovero dei pellegrini diretti in Terrasanta.

Sarà un museo adatto a tutti i pubblici, anche alle scuole e alle famiglie, che potrà parlare a tutti attraverso diversi linguaggi e con modalità museologiche innovative e interattive, aiutato da quelle tecnologie che possono facilitare la conservazione e la diffusione della memoria.

Il percorso espositivo del MEI sarà costruito intorno alle storie di vita dei protagonisti dell’emigrazione: le esperienze dei singoli saranno proposte al visitatore attraverso fonti primarie come le autobiografie, i diari, le lettere, le fotografie, i giornali, i canti e le musiche che accompagnavano gli emigranti, i documenti conservati da enti, istituzioni statali e locali, archivi, musei, associazioni di emigrati, che fanno parte della grande rete di collaborazione che il MEI sta costruendo affinché il nuovo Museo sia davvero un museo partecipato, capace di rinnovarsi.

Tutti questi documenti concorreranno alla creazione di un’unica narrazione, in grado di non appiattire il fenomeno ma mostrarlo attraverso le sue numerose sfaccettature ed articolazioni. Il MEI sarà un museo in movimento: l’emigrazione è un viaggio, e chi entrerà si troverà immerso nel viaggio tra le immagini e le storie dei milioni di italiani che hanno lasciato il nostro paese a partire dall’Unità d’Italia nel 1861 per arrivare fino ad oggi.

Le diverse “stazioni” che compongono il percorso potranno “parlare” in modo diverso a seconda dell’interlocutore che si avvicinerà: questo grazie a un meccanismo di registrazione all’ingresso che permetterà di calibrare lingue, storie e documenti in base alla specifica persona che sta compiendo il percorso. I dati sulle partenze, i ritorni, le destinazioni, il lavoro, la salute, l’alimentazione, il razzismo, l’accoglienza, le tante motivazioni diverse per lasciare l’Italia, che rappresentano il grande mosaico della migrazione saranno comunicati attraverso strumenti che permetteranno anche di “portare a casa” i contenuti, magari per rifletterci in un secondo tempo, o per condividerli insieme attraverso le reti social.

Ci sarà anche uno spazio di riflessione, il “Memoriale” che attraverso una suggestione artistica intende essere il punto emotivamente più alto del percorso. La storia dell’emigrazione italiana è segnata infatti da una serie di episodi dolorosi, a volte collettivi. Uno spazio all’interno permetterà di approfondire gli episodi, dai fatti di Aigües Mortes (1893) alla strage di Marcinelle (1956), passando per disastri minerari e naufragi.

L’emigrazione italiana non ha avuto solo la sua destinazione all’estero e non appartiene solo al passato. Per questo il Museo racconterà anche l’emigrazione interna, declinata nelle sue due grandi direttrici, dalla campagna alla città e dal Sud al Nord e l’emigrazione contemporanea, con le forme che ha assunto dopo il 1973, anno del cambio epocale, in cui da paese di emigrazione, l’Italia diviene paese di immigrazione.

Il percorso museale integrerà anche quello del Galata Museo del Mare, che da anni offre ai visitatori un’esperienza multimediale coinvolgente con il Museo Memoria e Migrazioni, un percorso interattivo che rievoca la traversata oceanica dei migranti italiani a bordo dei piroscafi verso gli Stati Uniti e il Sud America, il Brasile e l’Argentina; e che in una sezione specifica racconta l’immigrazione contemporanea verso l’Europa.

I documenti utilizzati per la costruzione del percorso del Museo sono il frutto di ricerche e studi che hanno visto il fondamentale appoggio e la collaborazione di studiosi e istituzioni quali il Centro Internazionale di Studi sull’Emigrazione Italiana (CISEI) di Genova, la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, il Museo regionale dell’emigrazione Pietro Conti di Gualdo Tadino, l’Istituto centrale per i beni sonori e gli audiovisivi, l’Istituto Luce – Archivio Storico Luce, la Rai, attraverso l’Archivio Rai-Teche, l’Archivio Centrale dello Stato e l’Archivio Storico Diplomatico del Ministero Affari esteri e cooperazione internazionale. Non sono inoltre mancati contatti con musei e centri internazionali quali l’Ellis Island National Museum of Immigration, il MUNTREF -Museo de la Inmigración di Buenos Aires e il Museu da Imigração do Estado de São Paulo di San Paolo.

Ruolo fondamentale rivestono inoltre le numerose associazioni di “Italiani nel Mondo”, una molteplicità di soggetti spesso molto attivi, sia in Italia che all’estero, nelle relazioni internazionali e di forte impatto sulle comunità degli italiani espatriati. Le collaborazioni con queste Associazioni mirano a rendere il costituendo Museo testimone della complessità dei fenomeni migratori e rappresentativo di tutte le realtà regionali del Paese. L’entusiastica risposta di molte di queste associazioni ha permesso sottoscrivere protocolli di intesa finalizzati allo scambio di documentazione, al trasferimento di conoscenze e competenze, ponendo le basi per una “assemblea dei partecipanti” del Museo stesso che potrà dare vita in futuro a iniziative ed attività sia in campo nazionale che internazionale.

Infine, il comitato ha sviluppato un importante e costruttivo dialogo con un soggetto istituzionale di grande rilevanza quale la Direzione Generale degli Italiani all’Estero (DIGIT) del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, sottoscrivendo anche un protocollo d’intesa con Consiglio Generale degli Italiani all’estero (CGIE).

“Una grande operazione di memoria popolare e collettiva del nostro Paese – commenta Paolo Masini, presidente del Comitato di indirizzo per la realizzazione del MEI – Partendo dalle singole storie personali si arriva a ricostruire un fenomeno che è nell’anima stessa delle radici dell’umanità. Donne e uomini con le storie più diverse che spesso hanno saputo trasformarsi in semi preziosi in terre generose”.

“Un progetto importante per storia, cultura e turismo che oggi arriva alla fase esecutiva – dice il sindaco di Genova Marco Bucci -. Sappiamo che Genova ha avuto un ruolo strategico nella storia dell’emigrazione italiana grazie al suo porto, crocevia di persone, merci, culture. “Dovve i Zeneixi vàn, ‘n’atra Zena fan” diceva, secondo la tradizione, l’Anonimo Genovese: una testimonianza della nostra storia da migranti del mondo. Storia che troverà spazio qui, in locali ristrutturati e ripensati per questo scopo. Il MEI godrà inoltre di una posizione strategica: con l’Acquario e il Museo del Mare a due passi, il Museo dell’emigrazione completerà un’offerta museale e turistica di primo livello. Grazie a tutti i soggetti che hanno collaborato alla realizzazione del museo”. (aise) 

Fonte: Museo dell’Emigrazione Italiana: al via i lavori (aise.it)

Per il Giorno del Ricordo: che cosa furono i massacri delle foibe

Nel 2005 gli italiani furono chiamati per la prima volta a celebrare il 10 febbraio come «Giorno del Ricordo», in memoria dei quasi ventimila nostri fratelli torturati, assassinati e gettati nelle foibe (le fenditure carsiche usate come discariche) dalle milizie della Jugoslavia di Tito alla fine della Seconda guerra mondiale.

La memoria delle vittime delle foibe e degli italiani costretti all’esodo dalle ex province italiane della Venezia Giulia, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia è un tema che ancora divide. Eppure quelle persone meritano, esigono di essere ricordate.

Per questo motivo proviamo a ricostruire quegli eventi drammatici, e a capire come mai questa tragedia è stata confinata nel regno dell’oblio per quasi sessant’anni. Ma andiamo con ordine.

LA FINE DELLA GUERRA

Nel 1943, dopo tre anni di guerra, le cose si erano messe male per l’Italia. Il regime fascista di Mussolini aveva decretato il proprio fallimento con la storica riunione del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio 1943. Ne erano seguiti lo scioglimento del Partito fascista, la resa dell’8 settembre, lo sfaldamento delle nostre Forze Armate. Nei Balcani, e particolarmente in Croazia e Slovenia, le due regioni balcaniche confinanti con l’Italia, il crollo dell’esercito italiano aveva fatalmente coinvolto le due capitali, Zagabria (Croazia) e Lubiana (Slovenia).

LA VENDETTA DI TITO

Qui avevano avuto il sopravvento le forze politiche comuniste guidate da Josip Broz, nome di battaglia «Tito», che avevano finalmente sconfitto i famigerati “ustascia” (i fascisti croati agli ordini del dittatore Ante Pavelic che si erano macchiati di crimini), e i non meno odiati “domobranzi”, che non erano fascisti, ma semplicemente ragazzi di leva sloveni, chiamati alle armi da Lubiana a partire dal 1940, allorché la Slovenia era stata incorporata nell’Italia divenendone una provincia autonoma.

La prima ondata di violenza esplose proprio dopo la firma dell’armistizio, l’8 settembre 1943: in Istria e in Dalmazia i partigiani jugoslavi di Tito si vendicarono contro i fascisti che, nell’intervallo tra le due guerre, avevano amministrato questi territori con durezza, imponendo un’italianizzazione forzata e reprimendo e osteggiando le popolazioni slave locali.

Con il crollo del regime – siamo ancora alla fine del 1943 – i fascisti e tutti gli italiani non comunisti vennero considerati nemici del popolo, prima torturati e poi gettati nelle foibe. Morirono, si stima, circa un migliaio di persone. Le prime vittime di una lunga scia di sangue.

Tito e i suoi uomini, fedelissimi di Mosca, infatti, iniziarono la loro battaglia di (ri)conquista di Slovenia e Croazia – di fatto annesse al Terzo Reich – senza fare mistero di volersi impadronire non solo della Dalmazia e della penisola d’Istria (dove c’erano borghi e città  con comunità italiane sin dai tempi della Repubblica di Venezia), ma di tutto il Veneto, fino all’Isonzo.

IL FRENO DEI NAZISTI

Fino alla fine di aprile del 1945 i partigiani jugoslavi erano stati tenuti a freno dai tedeschi che avevano dominato Serbia, Croazia e Slovenia con il pugno di ferro dei loro ben noti sistemi (stragi, rappresaglie dieci a uno, paesi incendiati e distrutti).

Ma con il crollo del Terzo Reich nulla ormai poteva più fermare gli uomini di Tito, irreggimentati nel IX Korpus, e la loro polizia segreta, l’OZNA (Odeljenje za Zaštitu NAroda, Dipartimento per la Sicurezza del Popolo). L’obiettivo era l’occupazione dei territori italiani.

Nella primavera del 1945 l’esercito jugoslavo occupò l’Istria (fino ad allora territorio italiano, e dal ’43 della Repubblica Sociale Italiana) e puntò verso Trieste, per riconquistare i territori che, alla fine della prima guerra mondiale, erano stati negati alla Jugoslavia.

 LA LIBERAZIONE DEGLI ALLEATI

Non aveva fatto i conti, però, con le truppe alleate che avanzavano dal Sud della nostra penisola, dopo avere superato la Linea Gotica. La prima formazione alleata a liberare Venezia e poi Trieste fu la Divisione Neozelandese del generale Freyberg, l’eroe della battaglia di Cassino, appartenente all’Ottava Armata britannica. Fu una vera e propria gara di velocità.

Gli jugoslavi si impadronirono di Fiume e di tutta l’Istria interna, dando subito inizio a feroci esecuzioni contro gli italiani. Ma non riuscirono ad assicurarsi la preda più ambita: la città, il porto e le fabbriche di Trieste.

Infatti, la Divisione Neozelandese del generale Freyberg entrò nei sobborghi occidentali di Trieste nel tardo pomeriggio del 1° maggio 1945, mentre la città era ancora formalmente in mano ai tedeschi che, asserragliati nella fortezza di San Giusto, si arresero il 2, impedendo in tal modo a Tito di sostenere di aver «preso» Trieste.

La rabbia degli uomini di Tito si scatenò allora contro persone inermi in una saga di sangue degna degli orrori rivoluzionari della Russia del periodo 1917-1919.

I NUMERI DELLE VITTIME

Tra il maggio e il giugno del 1945 migliaia di italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia furono obbligati a lasciare la loro terra. Altri furono uccisi dai partigiani di Tito, gettati nelle foibe o deportati nei campi sloveni e croati. Secondo alcune fonti le vittime di quei pochi mesi furono tra le quattromila e le seimila, per altre diecimila.

Fin dal dicembre 1945 il premier italiano Alcide De Gasperi presentò agli Alleati «una lista di nomi di 2.500 deportati dalle truppe jugoslave nella Venezia Giulia» ed indicò «in almeno 7.500 il numero degli scomparsi».

In realtà, il numero degli infoibati e dei massacrati nei lager di Tito fu ben superiore a quello temuto da De Gasperi. Le uccisioni di italiani – nel periodo tra il 1943 e il 1947 – furono almeno 20mila; gli esuli italiani costretti a lasciare le loro case almeno 250mila.

COME SI MORIVA NELLE FOIBE

I primi a finire in foiba nel 1945 furono carabinieri, poliziotti e guardie di finanza, nonché i pochi militari fascisti della RSI e i collaborazionisti che non erano riusciti a scappare per tempo (in mancanza di questi, si prendevano le mogli, i figli o i genitori).

Le uccisioni avvenivano in maniera spaventosamente crudele. I condannati venivano legati l’un l’altro con un lungo fil di ferro stretto ai polsi, e schierati sugli argini delle foibe. Quindi si apriva il fuoco trapassando, a raffiche di mitra, non tutto il gruppo, ma soltanto i primi tre o quattro della catena, i quali, precipitando nell’abisso, morti o gravemente feriti, trascinavano con sé gli altri sventurati, condannati così a sopravvivere per giorni sui fondali delle voragini, sui cadaveri dei loro compagni, tra sofferenze inimmaginabili.

Soltanto nella zona triestina, tremila sventurati furono gettati nella foiba di Basovizza e nelle altre foibe del Carso.

 IL DRAMMA DI FIUME E IL DESTINO DELL’ISTRIA

A Fiume, l’orrore fu tale che la città si spopolò. Interi nuclei familiari raggiunsero l’Italia ben prima che si concludessero le vicende della Conferenza della pace di Parigi (1947), alla quale – come dichiarò Churchill – erano legate le sorti dell’Istria e della Venezia Giulia. Fu una fuga di massa. Entro la fine del 1946, 20.000 persone avevano lasciato la città, abbandonando case, averi, terreni.

LA CONFERENZA DI PACE DI PARIGI

Alla fine del 1946 la questione italo-jugoslava era divenuta per molti un peso che intralciava la soluzione di altre e ancora più importanti questioni: gli Alleati volevano trovare una soluzione per Vienna e Berlino; l’Unione Sovietica doveva sistemare la divisione della Germania. L’Italia era alle prese con la gestione della transizione tra monarchia e repubblica.

In sostanza bisognava determinare dove sarebbe passato il confine tra Italia e Jugoslavia. Gli Stati Uniti, favorevoli all’Italia, proposero una linea che lasciava al nostro Paese gran parte dell’Istria. I sovietici, favorevoli ai comunisti di Tito, proposero un confine che lasciava Trieste e parte di Gorizia alla Jugoslavia. La Francia propose una via di mezzo, molto vicina all’attuale confine, che sembrava anche l’opzione più realistica, non perché rispettava le divisioni linguistiche, ma perché seguiva il confine effettivamente occupato dagli eserciti nei mesi precedenti.

Il dramma delle terre italiane dell’Est si concluse con la firma del trattato di pace di Parigi il 10 febbraio 1947. Alla fine, alla conferenza di Parigi venne deciso che per il confine si sarebbe seguita la linea francese: l’Italia consegnò alla Jugoslavia numerose città e borghi a maggioranza italiana rinunciando per sempre a Zara, alla Dalmazia, alle isole del Quarnaro, a Fiume, all’Istria e a parte della provincia di Gorizia.

L’ESODO

Il trattato di pace di Parigi di fatto regalò alla Jugoslavia il diritto di confiscare tutti i beni dei cittadini italiani, con l’accordo che sarebbero poi stati indennizzati dal governo di Roma.

Questo causò due ingiustizie. Prima di tutto l’esodo forzato delle popolazioni italiane istriane e giuliane che fuggivano a decine di migliaia, abbandonando le loro case e ammassando sui carri trainati dai cavalli le poche masserizie che potevano portare con sé. E, in seguito, il mancato risarcimento.

La stragrande maggioranza degli esuli emigrò in varie parti del mondo cercando una nuova patria: chi in Sud America, chi in Australia, chi in Canada, chi negli Stati Uniti.

INTERESSE POLITICO IN ATTI D’UFFICIO

Tanti riuscirono a sistemarsi faticosamente in Italia, nonostante gli ostacoli dei ministri del partito comunista che – favorevoli alla Jugoslavia – minimizzarono la portata della diaspora.

Emilio Sereni, che ricopriva la determinante carica di ministro per l’Assistenza post-bellica, e sul cui tavolo finivano tutti i rapporti con le domande di esodo e di assistenza provenienti da Pola, da Fiume, dall’Istria e dalla ex Dalmazia italiana, anziché farsene carico e rappresentare all’opinione pubblica la drammaticità della situazione minimizzò la portata del problema, rifiutò di ammettere nuovi esuli nei campi profughi di Trieste con la scusa che non c’era più posto e, in una serie di relazioni a De Gasperi, parlò di «fratellanza italo-slovena e italo-croata», sostenne la necessità di scoraggiare le partenze e di costringere gli istriani a rimanere nelle loro terre, affermò che le notizie sulle foibe erano «propaganda reazionaria».

IL GIORNO DEL RICORDO

Come è stato possibile che una simile tragedia sia stata confinata nel regno dell’oblio per quasi sessant’anni? Tanti, infatti, ne erano passati tra quel quadriennio 1943-47 che vide realizzarsi l’orrore delle foibe, e l’auspicato 2004, quando il Parlamento approvò la «legge Menia» (dal nome del deputato triestino Roberto Menia, che l’aveva proposta) sulla istituzione del «Giorno del Ricordo».

La risposta va ricercata in una sorta di tacita complicità, durata decenni, tra le forze politiche centriste e cattoliche da una parte, e quelle di estrema sinistra dall’altra. Fu soltanto dopo il 1989 (con il crollo del muro di Berlino e l’autoestinzione del comunismo sovietico) che nell’impenetrabile diga del silenzio incominciò ad aprirsi qualche crepa.

Il 3 novembre 1991, l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga si recò in pellegrinaggio alla foiba di Basovizza e, in ginocchio, chiese  perdono per un silenzio durato cinquant’anni. Poi arrivò la TV pubblica con la fiction Il cuore nel pozzo interpretata fra gli altri da Beppe Fiorello. Un altro presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, si era recato, in reverente omaggio ai Caduti, davanti al sacrario di Basovizza l’11 febbraio 1993.

Così, a poco a poco, la coltre di silenzio che, per troppo tempo, era calata sulla tragedia delle terre orientali italiane, divenne sempre più sottile e finalmente tutti abbiamo potuto conoscere quante sofferenze dovettero subìre gli italiani della Venezia Giulia, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia.

Luciano Garibaldi

Covid: Argentina proroga a 28/2 divieto ingresso stranieri

Il governo argentino ha disposto la proroga della chiusura delle sue frontiere fino al 28 febbraio, un provvedimento che ha l’obiettivo di contrastare la pandemia da coronavirus e che riguarda in particolare l’ingresso nel Paese degli stranieri non residenti.

Il relativo decreto 67/2021 firmato dal coordinatore del governo Santiago Cafiero e dai ministri dell’Interno e della Salute, è stato pubblicato oggi sulla Gazzetta ufficiale argentina.

L’articolo 30 in particolare stabilisce che “la presente misura proroga il divieto di ingresso sul territorio nazionale, fino al 28 febbraio 2021 incluso, di persone straniere non residenti nel Paese, attraverso porti, aeroporti e punti di frontiera, con l’obiettivo di ridurre le possibilità di contagio”.

Inoltre l’Amministrazione nazionale dell’aviazione civile (Anac) “manterrà a partire da oggi la sospensione delle autorizzazioni e permessi disposti per quanto riguarda le operazioni di trasporto aereo in voli diretti che abbiano come origine o destino il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, di fronte alla presenza di una nuova versione (britannica) del Covid-19”.

Particolare attenzione la decisione amministrativa riserva ai voli provenienti da Stati Uniti, Messico, Europa e Brasile, disponendo la riduzione delle “frequenze dei collegamenti aerei per il trasporto passeggeri del 30% per le prime tre destinazioni, e del 50% per il Brasile”.

Infine, in base al rapporto quotidiano del ministero della Salute diffuso il 31 gennaio a Buenos Aires, con 4.975 nuovi casi, il numero dei contagi dal marzo scorso ha raggiunto quota 1.927.239, mentre i morti sono ora 47.974, di cui 49 registrati nelle ultime 24 ore. (ANSA).

Fonte: Covid: Argentina proroga a 28/2 divieto ingresso stranieri – Ultima Ora – ANSA

Anche da Merlo (Europeisti-Maie) sì a Draghi: l’Esecutivo sia politico

Come il gruppo della Camera, anche quello del Maie al Senato (Europeisti – Maie) ha confermato il proprio sostegno al futuro Governo Draghi.

Lo ha confermato il senatore Ricardo Merlo, che ha incontrato il presidente incaricato Mario Draghi oggi pomeriggio: “noi siamo disponibili a partecipare a questa esperienza di governo”. “Fondamentale” per Merlo è che il governo “sia politico”.

Apprezzamento dal senatore anche per Giuseppe Conte, che oggi si è congedato da Palazzo Chigi: le sue parole, ha commentato Merlo, “sono state veramente molto incoraggianti e importanti”.

Il senatore – sottosegretario agli esteri nei Governi guidati da Conte – ha scelto twitter per ringraziare il premier uscente: “grazie a Giuseppe Conte per l’impegno, la passione e la determinazione con cui ha portato avanti il lavoro in questa legislatura”, ha scritto. “Le sue ultime dichiarazioni dimostrano ancora una volta grande responsabilità istituzionale. Sono certo che il suo percorso politico non finisce qui”. (aise) 

Fonte: Consultazioni/ Anche da Merlo (Europeisti-Maie) sì a Draghi: l’Esecutivo sia politico (aise.it)

5.652.080 italiani all’estero

È stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 4 febbraio, il decreto del Ministero dell’Interno che, di concerto con la Farnesina, ogni anno pubblica il numero dei cittadini italiani residenti all’estero, sulla base dei dati dell’elenco aggiornato, riferiti al 31 dicembre dell’anno precedente, come stabilito dall’articolo 7, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 2 aprile 2003, n. 104, cioè dal regolamento di attuazione della Legge Tremaglia (549/2001) sul voto all’estero. Il decreto è stato emanato il 28 gennaio, a firma dei ministri Lamorgese e Di Maio.

Al 31 dicembre 2020 gli italiani residenti all’estero erano 5.652.080, 165.999 in più rispetto al 2019.
La maggior parte risiede in Europa: 3.098.878 quelli nell’elenco aggiornato (erano 2.986.906 l’anno scorso); segue l’America meridionale con 1.754.303 (erano 1.711.245); quindi l’America settentrionale e centrale, dove risiedono 495.147 connazionali (erano 486.847) e, infine, la ripartizione Africa, Asia, Oceania e Antartide con 303.752 (erano 301.083).

Confrontando i dati con quelli del decreto dello scorso anno, come evidente, l’incremento maggiore rimane quello in Europa, con 111.972 italiani in più; 43.058 i connazionali che nel 2020 hanno scelto il Sud America. Più contenuti gli incrementi in Nord America (8.300) e in Africa Asia e Oceania (2.669). (aise) 

Fonte: 5.652.080 italiani all’estero: il decreto in Gazzetta (aise.it)

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