Quasi sconosciuto in Italia fino a qualche anno fa, poco implementato nel settore privato e ancor meno nell’ambito della pubblica amministrazione, lo smart working (o lavoro agile) ha acquisito notorietà con la pandemia da Covid-19 che ha colpito l’Italia e il mondo intero.
Lo smart working, oltre a creare condizioni favorevoli ormai note per lavoratori e lavoratrici (miglioramento della conciliazione tra vita privata e lavoro, flessibilità dell’orario lavorativo, aumento della produttività), ha un impatto positivo anche riguardo il territorio.
Nelle grandi città è stata accertata una considerevole diminuzione dell’inquinamento atmosferico e acustico grazie alla minore circolazione degli automezzi (che consente inoltre una forte riduzione dell’infortunistica stradale), mentre nei piccoli centri si assiste ad un rafforzamento della coesione territoriale, fenomeno dovuto alla possibilità offerta dallo smart working di svolgere le mansioni lavorative “a distanza”, nel paese di origine, a quanti sono stati costretti a migrare nelle metropoli.
In modalità agile, dunque, non ci sono vincoli relativamente alla scelta di strumenti, orari e luoghi di lavoro (salvo la necessaria prudenza nella scelta di luoghi al fine di non incorrere facilmente in infortuni), realizzando in tal modo la conciliazione dei tempi di vita con i tempi di lavoro.
Cosa ha portato e cosa porterà nell’immediato in termini di benefici per il territorio?
I benefici dello smart working per l’ambiente derivano dal contenimento degli spostamenti casa lavoro e, di conseguenza, dell’inquinamento dovuto alle emissioni di CO2 con una riduzione di costi e di stress a carico dei lavoratori, nonché del traffico e di incidenti stradali.
Ci sono poi gli impatti sull’ecosistema che ci circonda; il lavoro agile favorisce la ripopolazione di quelle aree precedentemente sfavorite in quanto “distanti” dal luogo di lavoro.
Lo smart working è una soluzione alla mobilità sostenibile contribuendo attivamente ai grandi obiettivi per un futuro sostenibile definiti dall’ “Agenda 2030” delle Nazioni Unite, che prevede di rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, resilienti e sostenibili e garantire a tutti di poter usufruire di un sistema di trasporti sicuro, conveniente, accessibile e sostenibile.
Le città del futuro dovranno essere green, obiettivo raggiungibile attraverso la riduzione degli impatti negativi sull’ambiente.
La sostenibilità ambientale dei territori rappresenta uno degli obiettivi della strategia smart working che risulta importante in quanto costituisce l’occasione per migliorare i processi produttivi e renderli più efficienti: riduzione dei costi, aumento della produttività, aumento della sicurezza sul lavoro e conciliazione vita privata e vita lavorativa. La comunicazione diventa un aspetto essenziale per trasmettere le informazioni a tutti gli attori, nessuno ne è escluso, né deve essere lasciato indietro lungo il cammino necessario per portare il mondo sulla strada della sostenibilità.
Nella Pubblica Amministrazione italiana si é invece tornati prepotentemente al lavoro “in presenza”.
Una scelta che appare sinceramente disastrosa, incoerente ed incommensurabilmente lontana dall’epoca in cui viviamo; incapace, non solo di adeguarsi ai profondi cambiamenti ed alle nuove sfide del nostro tempo, ma addirittura di disegnare un “piano strategico” , un percorso di rinnovamento efficace.
Eppure la parola d’ordine è: “trasformazione digitale del settore pubblico”, “passaggio al cloud computing” e al “cloud storage”, adottando le ultime tecnologie di “multi-edge, multi-cloud o edge-to-cloud”.
Alcune amministrazioni pubbliche, come le agenzie fiscali, sono già fortemente digitalizzate ma questo non le ha messe al riparo da problemi e disfunzioni; spesso anzi i difetti del software vengono utilizzati per coprire disservizi che sono di tutt’altra natura: incompetenze di dirigenti e interferenze della politica.
Negli ultimi 20 anni ci sono stati ripetuti tentativi di introdurre meccanismi incentivanti nel pubblico impiego. anche mettendo in piedi nuove strutture – come gli Organismi Interni di Valutazione (OIV) – volti ad assicurare una corretta applicazione delle scelte e degli obiettivi di gestione.
L’esperienza non è stata affatto incoraggiante e gli OIV sono risultati assai poco incisivi, diventando spesso strumenti per spartirsi poltrone.
L’unica riforma seria consiste nello scegliere bene i dirigenti, fissare per le amministrazioni nel loro complesso obiettivi verificabili, e reclutare persone competenti. Per anni queste scelte sono state dettate da pressioni politiche e sindacali: il risultato è che le componenti premiali delle retribuzioni sono quasi sempre distribuite in modo uniforme.
Per troppo tempo inoltre si sono permessi ingressi al di fuori dei concorsi; e anche quando i concorsi sono stati fatti hanno spesso premiato le “conoscenze” a dispetto delle competenze.
Anche l’ormai famoso PNRR (Piano nazionale di recupero e resilienza) risulta carente e preoccupante. Non si parla, per esempio, di come cambiare i processi di selezione dei dirigenti della PA, né di come far ripartire sistematicamente i concorsi.
Si fa solo un timido accenno all’immancabile “portale di reclutamento”, come se il problema fosse quello di far sapere che ci sono concorsi pubblici e non quello di scegliere bene a partire da platee sterminate di candidati.
Non si dice nulla su come selezionare i commissari dei concorsi, né su come remunerarli in modo da attrarre persone davvero capaci di valutare i candidati. Se le commissioni d’esame devono lavorare per mesi a tempo pieno e gratuitamente sarà quasi impossibile trovare commissari all’altezza di questo compito cruciale; si finirà come sempre a nominare commissioni autoreferenziali tutte di interni.
Niente di tutto questo si trova neanche nel Patto sottoscritto l’11 marzo coi sindacati.
È vero che nel patto si propone l’ingresso nella PA di nuove competenze, ma sono solo parole se non si specifica come verranno reclutate e con quali prospettive. Si parla di assunzioni con contratti a tempo determinato, ma non per questo si può essere meno selettivi. Le pressioni sindacali per trasformare queste posizioni in contratti a tempo indeterminato sempre e comunque saranno poi fortissime. Cosa succederà in questo scenario assai prevedibile?
È poi fondamentale che le nuove professionalità non diventino anch’esse un corpo separato come gli avvocati, i medici delle amministrazioni, i tecnici edilizi e così via. Questo significa costruire percorsi di carriera per questo tipo di personale, che spesso non ha le caratteristiche per assumere responsabilità gestionali, né l’ambizione di farlo. In altre parole, per i professionisti della PA deve essere possibile avere incrementi retributivi anche senza necessariamente diventare responsabili di strutture apicali.
Questo è possibile solo rivedendo la scala retributiva che oggi premia eccessivamente i dirigenti, spesso pagati più che nelle amministrazioni pubbliche di altri paesi, mentre penalizza le seconde linee: c’è un salto immenso fra i 240.000 euro di alcuni dirigenti di prima fascia e i 70.000 dei dirigenti di seconda.
Tra le nuove professionalità di cui la PA ha maggiormente bisogno c’è quella degli ingegneri gestionali: la digitalizzazione che serve non è quella imposta dai mega piani elaborati magari da società di consulenza esterne, ma quella scelta in un processo certosino di reingegnerizzazione dei processi, vincendo le tante complicazioni e lentezze burocratiche imposte da una cultura spesso unicamente giuridica e dalle invasioni della politica nella gestione.
Come per l’emergenza climatica, anche nella digitalizzazione e nella diffusione dello Smart working è urgente abbandonare i “bla bla bla” simpaticamente (ma perentoriamente) evocati da Greta Thumberg nel recente “Youth4Climate” di Milano.
Rosario Grenci