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September 2023

Elezioni in Argentina, quattro chiacchiere su politica con José Palmiotti

José Palmiotti oltre ad essere un politico radicale è un affermato imprenditore del settore gastronomico. Forte della sua esperienza ha cercato di fare un’incursione nella politica italiana e si è presentato nelle scorse elezioni 2015 come candidato a senatore per l’USEI. Poco tempo prima delle prossime elezioni politiche argentine parliamo con lui di politica locale.

Che incarico ha attualmente in C.A.B.A.?

Sono presidente della Comuna 4, che comprende: La Boca, Barracas, Pompeya e Parque Patricios e con molta soddisfazione comunico che nelle scorse elezioni primarie, in cui Jorge Macri del PRO ha vinto Lousteau dell’Unione Civica Radicale per un punto, in questa Comuna ha vinto Lousteau. Non ha vinto Jorge Macri ha vinto il radicalismo, che nella Città Autonoma di Buenos Aires ha ottenuto 10 Comunas mentre Jorge Macri ne ha conquistate cinque. Noi radicali appoggiavamo Lousteau e ora sosteniamo Jorge Macri, che è il candidato a Capo di Governo della Città Autonoma di Buenos Aires di Juntos para el Cambio, un’alleanza formata dal Radicalismo e dal PRO.

Questo a livello elezioni per il Capo di Governo di C.A.B.A. A livello nazionale i candidati a Presidente sono: Massa, Bullrich, Milei, chi appoggiate?

Ci sono state le elezioni primarie. Bullrich ha vinto Larreta e ora tutti appoggiamo Patricia Bullrich.

Questa candidata da giovane non era stata montonera o della Juventud Peronista?

Non credo che sia stata montonera, so che era del Movimiento Juvenil Peronista, era giovane. Non ha fatto niente di molto grave e poi una persona nel corso della vita può cambiare, l’importante è che si cambi in meglio.

Non la trova un poco autoritaria, violenta?

E’una donna a cui piace l’ordine e vuole combattere contro il crimine.

L’ha dimostrata quando durante la presidenza di Mauricio Macri è stata ministra de Seguridad de la Nacion Argentina (2015 – 2019). Vuole far rispettare le forze di sicurezza. Mi pare importante perché i delinquenti non rispettano la Polizia né le autorità.

Credo che potrebbe rimettere le cose in ordine, Dio voglia che sia il prossimo Presidente degli argentini.

In un ballottaggio tra Milei e Massa per chi voterebbero i radicali?

Io non voterei nessuno.

Perché?

Perché Massa è ministro dell’Economia da un anno e abbiamo visto che non funziona e Milei promette riforme che è impossibile realizzare, inoltre non mi piace perché ha un modo di fare autoritario. Credo che in Argentina dovremmo superare la profonda frattura politica e sociale che si è prodotta tra Kirchnerismo e anti Kirchnerimo ed evitare le aggressioni verbali e le provocazioni. Noi radicali abbiamo un altro modo di fare politica.

Milei ha un discorso violento perché sa che piace a una parte della popolazione, la gente è molto arrabbiata e vorrebbe eliminare la casta politica.

I cittadini sono molto arrabbiati con i politici perché in Argentina si sta sempre peggio, la situazione economica è molto complicata.

Cosa pensa del Papa?

Mi dispiace molto il fatto che essendo argentino ed essendo stato arcivescovo di Buenos Aires non sia venuto in Argentina. È stato in Brasile in occasione della XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù (22 – 20 luglio 2013). E’andato in Cile e in Perù (15 – 22 gennaio 2018) cioè ha volato sull’Argentina e non è venuto da noi. Il Papa è al di sopra della politica quindi sorprende il suo modo di agire. Noi argentini siamo in maggioranza cattolici quindi per noi se venisse a trovarci sarebbe una festa.

Sì, è strano. Come stanno i radicali in questo momento?

Molto bene, abbiamo vinto nella Provincia di Santa Fe, in quella del Chaco, e in Mendoza con Cornejo, abbiamo anche molte possibilità di vincere in Entre Rios. Intanto il discorso di Patricia penetra nella società, e potremmo anche avere un presidente di Juntos para el Cambio, sarebbe l’occasione per   cercare di cambiare questo paese, stabilire ordine, ridurre la corruzione, lottare contro il crimine. Ho veramente la speranza che potremmo fare qualcosa di positivo per l’Argentina. Melconian, che sarebbe il nostro ministro dell’Economia, è molto preparato e ha una buona equipe.

Voi radicali eravate quasi all’estinzione e siete stati dei buoni strateghi a fare un’alleanza con il PRO, ora vi siete ripresi e avete molte possibilità per il futuro.

In effetti avevamo perso consenso e l’abbiamo recuperato, sappiamo lavorare in squadra. Il PRO è più conflittuale. Prima delle scorse elezioni primarie c’è stato un problema tra Patricia Bullrich e Larreta e Mauricio Macri si è messo nel mezzo. Non ha fatto bene e questo conflitto interno ha delle conseguenze ed ha danneggiato politicamente tutto Juntos para el Cambio.

Cioè?

Questa disputa ci ha fatto perdere voti perché non sappiamo chi voteranno i simpatizzanti di Larreta, potrebbero scegliere un altro candidato.

C’è stato un errore del PRO, se non ci fosse stato questo conflitto interno saremmo risultati primi alle primarie. Avevamo un consenso del 45- 46% e ora per questo litigio siamo terzi. La verità è che siamo umani e possiamo fare errori e poi ci sono situazioni imprevedibili. Inoltre questo è un paese difficile e chi vincerà, qualsiasi sia, avrà grossi problemi da risolvere.

Il compito del Presidente è complicato

Una volta Lei mi ha detto che Fernando De La Rua ha vinto un seggio di senatore nazionale per la Capitale contro un uomo di Peròn, quando è successo?

Nel 1973 e l’ha conservato fino al 1976. Il candidato del Frente Justicialista de Liberación (FREJULI), un’alleanza tra il Partido Justicialista, il Movimiento de Integración y Desarrollo (MID), guidato dall’ ex presidente Arturo Frondizi,  dal Partido Conservador e altri aveva candidato Marcelo Sánchez Sorondo, che è stato vinto da Fernando de la Rúa, radicale e a quel tempo giovane avvocato.

Dalla caduta della dittatura voi radicali avete avuto due presidenti, uno è Alfonsin e l’altro de la Rúa. Entrambi sono dovuti andarsene prima della fine del loro mandato, perché?

Diciamo che hanno fatto la vita impossibile ad entrambi. Il sindacalismo ha realizzato 13 scioperi generale e 4.000 parziali durante il governo di Alfonsin (1983-1989) e a Fernando De La Rua (1999 – 2001), eletto per La Alianza (UCR – FREPASO) hanno fatto un colpo di stato soffice. Chacho Alvarez ha rinunciato all’incarico di vicepresidente dieci mesi dopo aver assunto, lui era del Frente Grande, da cui è nato il FREPASO, un partito di origine peronista.

Perché succedono queste cose?

Non ci sono spiegazioni facili, mi pare che tutte siano riconducibili ad un problema di ego. Ora dobbiamo arrivare alle elezioni di ottobre in pace, dopo sarà complicato governare. Ci sono troppi problemi, il paese è girato a destra, c’è un’inflazione molto alta, c’è bisogno di lavoro genuino cioè dato dai privati, bisogna attirare investimenti.

Mi dica una delle riforme di cui c’è necessità subito.

La riforma del lavoro, non può essere che se una persona apre un’impresa e licenza un impiegato, quest’ultimo vinca sempre. C’è bisogno di trovare un equilibrio tra gli interessi degli imprenditori e quelli dei dipendenti.

Edda Cinarelli

Quattro chiacchiere con il deputato italialoargentino del MAIE Franco Tirelli

Nato in Argentina e laureato in giurisprudenza, alle elezioni politiche anticipate del 2022 è candidato alla Camera dei Deputati dal Movimento Associativo Italiani all’Estero (MAIE), è risultato eletto nella Circoscrizione Estero (America meridionale). Alla Camera aderisce al gruppo Noi moderati – MAIE.

Deputato, qual è stata la prima sensazione che ha provato subito dopo il suo arrivo in Italia come parlamentare?

Quando, nell’ottobre del 2022, sono arrivato alla Camera dei Deputati, ho sentito che si concludeva una storia familiare di immigrazione italiana, mio nonno, mia nonna, mio padre e mia zia sono arrivati nel 1947 in Argentina che per loro era una terra sconosciuta, e io con grande orgoglio e soddisfazione ne ho iniziata un’altra. Ho ripagato tutta quella fatica giungendo al Parlamento Italiano per difendere gli italiani all’estero.

Quali sono, secondo Lei, le differenze tra la società di Rosario e quella romana?

Non ho notato delle differenze, anzi la somiglianza tra le due società è qualcosa di meraviglioso. C’è solo una diversità: quando cammino per Roma vado tranquillo senza la paura di essere derubato mentre a Rosario è il contrario.

Come vede le relazioni tra l’Italia e l’Argentina? Mi pare che ci siano molte iniziative buone ma che non si possa nascondere un allontanamento tra i due paesi.

Credo che le relazioni bilaterali tra i nostri due paesi siano nel loro momento peggiore. In primo luogo perché all’Italia non interessa fare investimenti o cercare mercati in Argentina a causa dei problemi evidenti della realtà locale. Uno dei nostri doveri come parlamentari è proprio quello di lavorare per cambiare questa situazione con la speranza che il nostro impegno sia ricompensato e facilitato da un cambio di governo nella Casa Rosada.

Presto il governo argentino dovrà votare la città capitale dell’Expo2030, credo che voterà Riad, cosa prova?

Credo che il governo uscente voterà Riad per l’Expo 2030. Io e il MAIE continueremo a insistere perché voti Roma e giorno dopo giorno cerchiamo di dialogare con il governo locale per fargli cambiare intenzione. Non ci diamo per vinti e insisteremo fino all’ultimo momento. Naturalmente spero che i nostri sforzi diano i loro frutti.

So che durante il suo ultimo soggiorno in Argentina ha visitato alcune sedi consolari, tiri le somme delle sue visite.

Appena ho saputo di essere stato eletto ho preparato il mio programma di lavoro. Mi ero proposto di visitare i 9 Comites dell’Argentina nel primo anno del mio mandato e ho incontrato i vari consiglieri, poi la comunità italiana locale e infine i consoli, i loro staff e le strutture. La mia intenzione era quella di ascoltarli e di mettermi a loro disposizione ma volevo anche dargli informazioni sul mio lavoro. Ho già visitato 7 circoscrizioni in Argentina, mancano Mendoza e Bahía Blanca, andrò nel Consolato di Mendoza a novembre e nel Consolato Generale di Bahia Blanca a febbraio 2024. A ottobre andrò in Brasile. Ho l’impressione che ci sia molto da fare con i Comites e la comunità. L’importante è mostrare alle persone che c’è un parlamentare che si occupa di loro e le va a trovare per ascoltarle e per poter lavorare insieme. Per quanto riguarda le sedi consolari, ho verificato che nonostante la mancanza di dipendenti, hanno portato al massimo l’erogazione dei servizi consolari ma è evidente che gli sforzi non sono sufficienti per rispondere a tutte le richieste di pratiche. Io e il senatore Borghese stiamo insistendo perché il ministero degli Affari Esteri mandi con una certa urgenza altro personale in forza ai consolati. Credo che siamo sulla strada giusta e tra poco inizieremo a vedere i frutti del nostro lavoro.

So che il MAIE sta chiedendo al governo di semplificare il Prenot@mi, in che modo?

È importante chiarire che dal nostro insediamento io e il senatore Borghese siamo andati alla Farnesina per parlare con i funzionari e spiegargli che Prenot@mi funziona male. Gli abbiamo riportato le lamentele dei cittadini e comunicato che è necessario fare urgenti cambiamenti di semplificazione del programma e trovare il modo di ostacolare i gestori, che approfittando della disperazione della gente, prendono appuntamenti e li vendono a prezzi scandalosi. In questa cornice e in assenza di una risposta immediata del Ministero, abbiamo proposto idee per rendere più agile l’applicazione degli appuntamenti e per evitare che la pagina si blocchi a causa dei gestori. Credo che presto avremo buone notizie dal Ministero. Abbiamo anche presentato la possibilità di autorizzare i consolati a servirsi di sistemi complementari, come avviene nel consolato di Caracas che usa e-mail e quello di Londra che si avvale della collaborazione dei Comites e dei patronati per migliorare il servizio dei turni.

Bisognerebbe avanzare nel tema del riconoscimento dei titoli di studio tra l’Argentina e l’Italia, avete preso delle iniziative in proposito.

Con il grande esodo di professionisti dall’Argentina e da tutto il Sud America, una delle rivendicazioni più importanti è questa. Pertanto, con l’avvio dei lavori parlamentari a settembre, io e il mio gruppo di lavoro inizieremo ad approfondire la questione per vedere che proposta presentare al governo italiano per agevolare il riconoscimento dei titoli universitari. Alcuni professionisti hanno impiegato più di due anni per ottenere il riconoscimento del loro titolo universitario.

So che i suoi figli si chiamano Octavio e Augusto, è innegabile la sua ammirazione per la cultura romana, è per la laurea in legge?

La mia moglie (cittadina italiana da parte del nonno, nato a Pontremoli, Toscana), avvocato e notaio, sia il sottoscritto avvocato, abbiamo una particolare predilezione per il Diritto Romano, che entrambi abbiamo studiato alla Facoltà Pubblica di Legge di Rosario, e per la storia italiana e questo si riflette nei nomi dei nostri figli.

Che iniziative si potrebbero prendere per la promozione della lingua italiana in Argentina?

Per quanto riguarda la lingua italiana, ho fatto una visita alla sede della Dante Alighieri di Roma e abbiamo deciso insieme di preparare come prima misura il progetto di un corso virtuale di aggiornamento per gli insegnanti d’ italiano. Poi ho inviato una proposta alle regioni italiane per organizzarne altri sempre a distanza corsi nelle associazioni regionali.

Vista la mancanza di personale di ruolo e la preparazione fatta sul campo dai contrattisti avete pensato ad una dinamica di promozione del personale?  È altamente qualificato e sente di avere sulla testa un tetto di cristallo senza possibilità di crescita.

In realtà il problema della mancanza di personale riguarda sia il personale di ruolo proveniente da Roma sia il personale a contratto assunto localmente. Si tratta di due tipologie complementari di funzionari, assunti tramite concorsi che rispondono a esigenze e requisiti completamente diversi. C’è molto bisogno di tutte e due le categorie, perché entrambe sono fondamentali per il buon funzionamento di un ufficio consolare.

 Edda Cinarellli

Stato, non sarai il mio dio – di Giuseppe Lalli

Viene prima lo Stato o la Nazione? In una dimensione ancestrale è difficile dirlo. È come dire: l’homo sapiens sente più forte il senso dell’appartenenza o quello della sicurezza? L’homo sapiens sapiens (il nostro progenitore), scuro di pelle, che dal “Corno d’Africa” viene in Europa e finisce per scontrarsi con l’europeo homo di Neanderthal, bianco, si porta dietro un’idea di appartenenza o solo il bisogno di sopravvivenza?

Sta di fatto, però, che l’homo sapiens, ancorché meno dotato fisicamente, riuscì a vincere il suo cugino perché possedeva un linguaggio articolato, a differenza di quello “proposizionale” dell’homo di Neanderthal. Il sapiens finì per prevalere perché capace di comunicare meglio e quindi di adottare una strategia di gruppo, ciò che depone a favore dell’organizzazione, ancorché sia arduo, in questo contesto, parlare di Stato e Nazione. Una cosa tuttavia è certa: entrambe le specie pare che praticassero il culto dei morti, segno che la religione è un tratto distintivo assai profondo dell’umanità, e sicuramente precede sia l’idea della Nazione che dello Stato.

In termini per così dire “moderni”, con la nascita delle “civiltà”, non c’è dubbio che il senso di appartenenza, la Nazione quindi, nella coscienza delle persone, precede il senso dello Stato: lo Stato, nell’epoca “civile”, è “al servizio” della Nazione, non il contrario. La travagliata storia del popolo ebraico ne è la più fulgida dimostrazione: la nazione ebraica sopravvive alla disfatta dello Stato, durante tutta la sua millenaria e commovente storia. Israele è una Nazione che reclama uno Stato: è questa una verità che caratterizza la sua vicenda umana da Abramo in poi.

Nel nostro tempo, abbiamo constatato che il crollo dei regimi comunisti dell’Europa centro–orientale, compresa la Russia, ha indebolito le strutture statali ma ha visto il riemergere dalle macerie il nazionalismo, fenomeno che, sia pure in forma patologica, è espressione del senso dell’appartenenza ad una Nazione. La Nazione, dunque, precede lo Stato ed è destinata a sopravvivergli. Il primato dello Stato è solo apparente, è un primato “psicologico”, il primato della Nazione è reale, è “ontologico”.

Il confronto tra queste due grandi istanze della convivenza umana si porta dietro altri concetti, quali Patria, Libertà, Sicurezza. L’idea di Patria è la stessa idea di “nazione” ma vissuta in una dimensione più sentimentale: richiama le comuni radici in maniera più immediata di quanto non faccia l’idea di Nazione. Non è un caso che il nazionalismo appare – ed è – una degenerazione, ed evoca l’idea di espansione a danno di altre nazioni. La patria invece, che può indicare anche una porzione di territorio più piccola della nazione di appartenenza, evoca la difesa, e si lega più facilmente all’idea di Libertà.

Quest’ultima indica un bisogno profondo, insopprimibile della persona umana, alla quale si può rinunciare, ma solo in via provvisoria, in nome della Sicurezza, sentimento anch’esso forte, perché ha a che fare con l’istinto di sopravvivenza. La Patria è un sentimento più forte di quanto si è voluto far credere da parte di una mentalità cosmopolita e astratta, quella esaltata da una certa ideologia sessantottina e prima ancora dall’internazionalismo di stampo marxista–leninista.

Volendo rifarsi alla storia politica italiana del ‘900, c’è da osservare che pochi storici hanno sottolineato il fatto che Benito Mussolini (1883–1945), alla fine dei travagliati anni che seguirono alla Grande Guerra, vinse la partita politica anche perché comprese che l’ideale della patria, esaltato dalla vittoria dell’Italia nel grande conflitto mondiale, che aveva cementato, nel fango delle trincee, l’appartenenza ad una stessa comunità nazionale, era, al di là della retorica, un sentimento naturale ben più profondo dell’appartenenza ad una classe sociale (Il socialismo, per il futuro “duce”, era stato, peraltro, solo un istinto ereditato). In altri termini, il giovane direttore di «Il popolo d’Italia» comprese che gli abitanti della Penisola, nonostante tutto, si sentivano prima italiani e poi operai o contadini, ragion per cui la “rivoluzione proletaria” era estranea al sentimento prevalente nella nazione.

Patria e Libertà” può essere un binomio vincente. Fu quello adottato, se non alla lettera come orientamento ideale di fondo, da una parte della Resistenza antifascista, quella più consapevole, minoritaria ma profetica e densa di avvenire. La Nazione, dunque, viene prima di ogni sistema politico e prima dello Stato, come si è mostrato, e questo fu, invece, ciò che Mussolini non comprese. E non lo comprese nemmeno il grande suggeritore del regime, Giovanni Gentile (1875–1944), teorico del cosiddetto “Stato etico“, vale a dire uno Stato che si arroga il diritto di essere fonte originaria di moralità. Uno Stato che si fa Dio: una riforma “religiosa” oltre che politica, che a Gentile gli deriva dalla cattiva lezione appresa da G. W. Friedrich Hegel (1770–1831), che nella sua visione dello Spirito che si invera nella Storia, pone al vertice del processo non la Religione ma la Ragione.

Nella visione del filosofo di Caltagirone la religione, che in Italia ha assunto, storicamente, la forma del cattolicesimo, è ontologicamente inferiore alla filosofia, e il catechismo, che egli ammette nell’insegnamento scolastico, è solo la “filosofia dei piccoli”, un modo per modellare la mente dei bambini alla speculazione astratta. La polemica tra il filosofo dell’Attualismo e Agostino Gemelli (1878–1959), il fondatore dell’Università Cattolica, verteva proprio su questo, ed era questa anche la vera posta in gioco nella diatriba che negli ‘30 oppone i vertici della Chiesa a quelli del regime fascista attorno alle organizzazioni cattoliche (bisogna rispondere, in ultima istanza, a Dio o allo Stato?).

Quello di Hegel e di Gentile è il regno dell’immanenza (Deus qui manet in nobis), a cui non ha accesso alcuna religione rivelata. La trascendenza, che è, a ben riflettere, fonte di libertà, viene così negata alla radice, e lo Stato, che è la meta ultima dell’«incedere di Dio nella Storia», diviene l’unico Dio nel cui seno l’uomo può riposare, il giudice ultimo del bene e del male. Dietro ogni totalitarismo c’è questa grande eresia: uno Stato che si fa Dio e che può assumere, volta per volta, una “ragione sociale” diversa e una diversa idea totalizzante (lo “stato organico”, la “razza”, “la classe”).

Nulla a che vedere con il Dio della rivelazione giudaico–cristiana: il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Gesù Cristo, il Dio dei vivi e non dei morti, vuole uomini liberi e responsabili. Contro il virus del totalitarismo, che tante tragedie ha provocato nel Novecento, il vaccino c’è: la trascendenza, la fede in un Dio che è al di là della storia, la sola che può garantire l’alleanza tra lo spirito di libertà e lo spirito di religione. «Sono incline a pensare – scriveva Alexis de Tocqueville (1805–1859) – che, se non ha fede, bisogna che serva e, se è libero, che creda».

Addio a Napolitano, il primo “comunista d’America” asceso (per due volte) al Colle

Napolitano. E napoletano, anzi napoletanissimo. Partenopeo fino al midollo, appartenente a quella ricca borghesia illuminata che, agli albori del Fascismo, flirtava con la nobiltà cittadina (la madre apparteneva a una nobile famiglia piemontese) e che vide, tra i suoi massimi esponenti, Raffaele La CapriaFrancesco RosiGiuseppe Patroni Griffi, tutti suoi compagni di liceo all’Umberto I di Napoli, dov’era nato il 29 giugno 1925.

Giorgio Napolitano, predecessore di Sergio Mattarella e presidente emerito, senatore a vita dal 2015, si è spento ieri a Roma all’età di 98 anni. È stato il presidente della Repubblica più longevo (nel 2021 aveva superato Carlo Azeglio Ciampi, morto a 95 anni nel 2016). Ma, soprattutto, è stato il primo ex comunista ad ascendere al Colle più alto, il Quirinale, nonché primo capo dello Stato italiano ad essere rieletto per un secondo mandato: nel 2013, mentre il Parlamento si arrovellava tra candidature nate morte e i 101 franchi tiratori che impallinarono Romano Prodi, lui accettò pur controvoglia di essere rieletto, salvo precisare che si trattava di un “mandato a tempo” e che i deputati e senatori, con quello spettacolo, avevano dato una pessima immagine di sé e delle istituzioni repubblicane.

E Napolitano, nel discorso di “rielezione”, non mancò con la voce rotta dalla commozione di bacchettare i parlamentari, denunciando il pericoloso “avvitarsi del Parlamento in seduta comune nell’inconcludenza, nella impotenza ad adempiere al supremo compito costituzionale dell’elezione del capo dello Stato”. Napolitano, quindi, ritenne “di non poter declinare” l’appello a farsi rieleggere, “per quanto potesse costarmi l’accoglierlo, mosso da un senso antico e radicato di identificazione con le sorti del Paese”.

Il Quirinale, appena avuta la notizia ha pubblicato una nota in cui il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella afferma: “Nella vita di Giorgio Napolitano si specchia larga parte della storia della seconda metà del Novecento, con i suoi drammi, la sua complessità, i suoi traguardi, le sue speranze. La sua morte mi addolora profondamente e, mentre esprimo alla sua memoria i sentimenti più intensi di gratitudine della Repubblica, rivolgo ai familiari il cordoglio dell’intera nazione”.

I cinque premier nominati

Il mandato a tempo durò infatti solo due anni, prima del compimento del suo 90esimo anno d’età: era già stanco e un settennato impegnativo alle spalle si faceva sentire. Aveva presenziato al giuramento del secondo governo Prodi (2006-2008) e poi al ritorno a Palazzo Chigi di Silvio Berlusconi (2008-2011) per il suo ultimo, contestatissimo governo, terminato tra grida di giubilo di una piccola folla radunatasi in piazza del Quirinale, proprio dove il Cavaliere si era recato per rimettere il mandato a Napolitano. Era il 16 novembre 2011, un’era politica fa.

Ma l’ex capo dello Stato, nei suoi nove anni al Colle, aveva tenuto a battesimo anche altri esecutivi: quello di Mario Monti, che proprio lui aveva nominato senatore a vita una settimana prima della caduta di Berlusconi, spianandogli la strada verso la guida del governo; quello di Enrico Letta, entrato in carica il 28 aprile 2013 e frutto di un estenuante travaglio lungo due mesi, causato dell’inedito pareggio alle politiche del 25 febbraio precedente. E, infine, quello di Matteo Renzi, il Rottamatore, che sull’onda del successo alle primarie del PD contro Pierluigi Bersani, aveva scalzato il rivale Letta dalla poltrona di premier col celebre “Enrico stai sereno”.

Una vita nel PCI

Iscrittosi a Giurisprudenza nel 1942, Giorgio Napolitano non prevedeva di votarsi anima e corpo alla politica, lui che crebbe con l’idea che la politica è un servizio e non una professione: i suoi interessi, infatti, spaziavano dal cinema alla letteratura e negli anni universitari si fece notare come critico cinematografico e teatrale su IX Maggio, rivista degli universitari fascisti, dove però scrivevano anche personalità di orientamenti ideologici diversi.

Dopo la Liberazione, si accostò progressivamente all’area comunista, iscrivendosi al PCI alla fine del ’45. Da allora cominciò per lui una lunga ascesa ai vertici del partito, prima funzionario, poi dirigente. Segretario della sezione di Caserta tra il 1951 e il 1957, fu eletto per la prima volta alla Camera nel 1953. Vi resterà per 43 anni, fino al 1996, tolta una piccola parentesi (1962-1966) per dirigere la sezione napoletana del PCI. Laureatosi in economia politica sul mancato sviluppo del Meridione dopo l’Unità d’Italia, i temi del sottosviluppo e delle politiche economiche saranno sempre al centro della sua azione pubblica. A capo della Commissione meridionale del Comitato centrale del PCI (dal 1956), Napolitano diresse quella del Lavoro di massa dal 1960 al 1962. Alla fine di quello stesso anno, entra nella Direzione nazionale, ricoprendo gli incarichi di coordinatore dell’ufficio di segreteria e dell’ufficio politico (1966-1969) e di responsabile della politica culturale (1969-75).

Il “comunista d’America” poi presidente della Camera e ministro dell’Interno

Negli anni Settanta, Giorgio Napolitano – appartenente alla corrente “migliorista” (di destra) del PCI – si fa conoscere all’estero, soprattutto in Europa e America, come rappresentante del più grande partito comunista d’Occidente, tenendo numerosi incontri e conferenze in università statunitensi: è il primo esponente del partito ad ottenere l’autorizzazione a recarsi negli Stati Uniti per partecipare a dibattiti di politica internazionale. Cresce, così, la sua attenzione e specializzazione ai temi del processo di integrazione europea, dell’atlantismo italiano e del riformismo.

Alla caduta del Muro di Berlino, si schiera con la maggioranza del PCI per una trasformazione del partito in senso socialdemocratico, che porterà alla svolta della Bolognina (1991) e alla nascita del PDS (Partito Democratico della Sinistra). Nel 1992 viene eletto presidente della Camera, nel pieno della tempesta di Tangentopoli. Con il primo governo Prodi (1996-1998) entra nel Consiglio dei ministri come titolare del Viminale: con Livia Turco, lavorerà alla legge sull’immigrazione (1998) che porta il suo nome, poi sostituita dalla Bossi-Fini (2002).

Cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica (1998), gli sono state conferite sette lauree honoris causa. Tra il 1999 e il 2004 è presidente della Commissione affari costituzionali nel Parlamento europeo, dove era stato eletto la prima volta nel 1989. Nel 2005 la nomina a senatore a vita da parte dell’allora presidente della Repubblica Ciampi, poi diventato suo predecessore. Giorgio Napolitano viene infatti eletto, dal Parlamento in seduta comune, capo dello Stato: è il 10 maggio 2006, con 543 voti su 990. È il primo ex comunista a ricoprire questa carica.

Tratto da: Addio a Napolitano, il primo “comunista d’America” asceso (per due volte) al Colle (rainews.it)

L’aumento delle pensioni minime rimane un miraggio (anche per gli italiani all’estero)

Abbiamo già rimarcato come la riforma pensionistica non farà parte delle misure programmate all’interno della prossima legge di bilancio per il 2024, che a quanto pare si limiterà a confermare l’esistente – Quota 103, Opzione donna rivisitata e l’Ape sociale – perché il budget previdenziale a disposizione non consentirebbe grosse innovazioni. Certamente però una delle misure più “sbandierate” nel corso dell’ultima campagna elettorale non sarà rispettata, e cioè l’aumento da 600 a 1.000 euro delle pensioni minime (provvedimento che avrebbe interessato anche gli italiani all’estero ed in particolare quelli residenti in America Latina).

La promessa, come si ricorderà, fu sostenuta in particolare dal leader di Forza Italia Silvio Berlusconi ma al momento questa possibilità non è neanche presa in considerazione sebbene nel Governo qualcuno prospetta una rivalutazione degli assegni minimi fino a 650-670 euro nel corso del prossimo anno.

Come si ricorderà, per effetto della scorsa manovra finanziaria, a partire dal mese di luglio l’Inps ha riconosciuto un incremento dell’assegno ai titolari di pensione di importo pari o inferiore al trattamento minimo per il periodo dal 1: gennaio 2023 al 31 dicembre 2024 per contrastare gli effetti negativi delle tensioni inflazionistiche.

In pratica con l’aumento transitorio per gli anni 2023-2024 del trattamento minimo di pensione le pensioni di importo pari o inferiore al minimo INPS sono incrementate rispettivamente dell’1,5 per cento per l’anno in corso e del 2,7 per cento per il prossimo (per un importo di circa 572 euro), mentre invece i pensionati che hanno compiuto i 75 anni di età hanno ricevuto una pensione minima aumentata già dal 2023 del 6,4 per cento (per un importo di circa 600 euro).

Per i titolari di pensione in convenzione è bene precisare che le percentuali degli aumenti sono state calcolate solo sul pro-rata italiano e non anche su quello estero.

L’aumento fino a 1.000 euro delle pensioni minime rimane quindi una chimera elettorale e una promessa non mantenuta, ed è un peccato perché effettivamente le pensioni minime in Italia sono molto basse e non consentono un tenore di vita appena decente, considerato anche che questo Governo è riuscito a trovare le risorse per specifiche categorie, come gli autonomi e i professionisti, con la flat tax al 15% per redditi fino a 85.000 euro.

Vedremo se nel corso di questa legislatura si riuscirà ad aumentare fino ad un importo ragionevole e necessario anche le pensioni minime.

Genova-Santos: molto più di un gemellaggio, le due città si preparano a diventare le capitali mondiali delle migrazioni

Tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento furono milioni gli italiani che lasciarono il Paese alla ricerca di un futuro migliore; fu la cosiddetta “grande emigrazione”, il più grande fenomeno sociale della storia dell’Italia unitaria.

Il principale porto di partenza fu quello di Genova, meta di italiani che con i mezzi precari di oltre un secolo fa si dislocarono da ogni canto per imbarcarsi su piroscafi e transatlantici. Non sempre le traversate dell’oceano furono prive di drammi e tragedie; se tanti partirono, non pochi furono quelli che morirono durante il tragitto, anche per le precarie condizioni di quel lunghissimo viaggio.

Il MEI, Museo dell’Emigrazione Italiana, recentemente inaugurato proprio a Genova, racconta in maniera impeccabile quell’epopea, e consiglierei a tutti una visita a questo bellissimo spazio multimediale, realizzato in un edificio storico che accoglieva le famiglie in attesa di affrontare il viaggio verso le Americhe.

Dall’altra parte dell’oceano c’è una città, Santos, destinata a diventare come Genova la “capitale mondiale dell’emigrazione”. A Santos, dopo oltre un mese di navigazione, arrivarono milioni di italiani spesso ignari del loro destino e a volte di qualsiasi nozione relativa al Paese che li avrebbe accolti.

Al “Museu do Cafè” di Santos e al “Museu da Imigraçao” di San Paolo, anch’esso installato presso i locali dell’antica “hospedaria dos imigrantes”, è possibile rivivere parte di quell’epopea, e vi assicuro che anche questa è un’esperienza imperdibile per chi voglia conoscere il mondo dell’emigrazione e della mobilità.

Dopo anni di contatti che hanno coinvolto le due amministrazioni comunali e i due principali istituti museali, ma anche le rispettive autorità portuali e le collettività italiane e brasiliane, nelle scorse settimane grazie al lavoro di tanti e in particolare all’iniziativa dell’italiano Fabio Niosi (figlio di una mobilità più recente che lo ha portato a vivere proprio a Santos) i sindaci delle due città si sono incontrati “virtualmente” e presto lo faranno di persona per dare avvio ad un grande progetto di scambi culturali e universitari e di cooperazione sul campo del turismo e dello sport.

Si tratterà molto più di un semplice gemellaggio: a unire le due città infatti non sono soltanto una storia comune; Santos e Genova sono legate da una comune vocazione all’internazionalizzazione e all’accoglienza e potranno dare al mondo un messaggio esemplare nel solco della storia delle migrazioni e della mobilità.

Lo faranno alla vigilia di due importanti scadenze: il 2024 è stato infatti dichiarato dall’Italia come l’anno internazionale del turismo delle radici e sempre nel 2024 il Brasile celebrerà i centocinquanta anni di storia dell’immigrazione italiana nel Paese.

Quali città meglio di Genova, il porto di partenza, e Santos, il luogo dello sbarco, potranno simbolizzare meglio questo secolo e mezzo di storia? E non di solo storia si tratta: a cavallo tra il più importante porto del Mediterraneo e il più grande porto dell’emisfero sud del mondo si sono sviluppati rapporti commerciali, rotte turistiche, relazioni scientifiche e anche avventure sportive e calcistiche. Se Genova è infatti la città del Genoa e della Sampdoria, squadre storiche del campionato italiano, è a Santos che Pelè consacrò il proprio talento, al quale oggi rende un adeguato tributo il “Museo Pelè”, meta obbligata per qualsiasi turista che arrivi nella grande città brasiliana.

A Marco Bucci, Sindaco di Genova, e Rogerio Santos, Sindaco di Santos, vanno i nostri complimenti per avere abbracciato il progetto e soprattutto gli auguri per il successo di un’iniziativa che ha un significato che va al di là di un semplice scambio di esperienze tra città. È l’incontro tra popoli e culture, al quale l’Italia e il Brasile di oggi devono molto e dal quale potranno ancora scaturire per entrambi i Paesi tanti importanti benefici e bellissime realizzazioni.

Articolo pubblicato da « Comunità italiana » (Settembre, 2023)

Pronuncia sfavorevole per il governo argentino nel giudizio internazionale scaturito dalla nazionalizzazione di YPF

Arriva dagli Stati Uniti una sentenza che potrebbe avere un severo impatto economico sulle gia’ disastrate finanze pubbliche argentine. Una recente pronuncia della giudice Loretta Preska, in servizio presso la Corte Distrettuale Sud di New York, ha condannato infatti il Governo argentino a pagare un ingente risarcimento nell’ambito di un giudizio scaturito dall’operazione di nazionalizzazione della compagnia petrolifera YPF realizzata nel 2012, nel corso dell’ultimo mandato presidenziale di Cristina Kirchner.

La vicenda giudiziaria prende le mosse dal mancato rispetto, da parte del Governo argentino, delle clausole contenute nello Statuto di YPF, secondo cui lo Stato, una volta acquisita la quota azionaria di maggioranza detenuta da Repsol (51%) a fronte di un controvalore pari a 5 miliardi di dollari, avrebbe dovuto contestualmente lanciare un’offerta pubblica di acquisto a favore dei soci di minoranza che detenevano il restante 49% del capitale (circostanza mai avvenuta). Di conseguenza, nel 2015, le società Petersen Energia e Petersen Energia Inversora, facenti capo al Gruppo argentino Eskenazi (azioniste di minoranza al 25% di YPF quando il 51% era detenuto da Repsol), hanno avviato un contenzioso innanzi al Tribunale di New York per il mancato riconoscimento di un equo indennizzo a seguito dell’esproprio delle loro quote azionarie.

In una fase successiva, i diritti di lite di cui erano titolari Petersen Energia e Petersen Energia Inversora sono stati acquistati dal fondo inglese Burford Capital, quotato a Wall Street, che nel medesimo giudizio assiste anche Eton Park Capital Management (che, al momento dell’esproprio, deteneva una quota di YPF pari all’1,63%)

Nelle motivazioni a sostegno della sua decisione il giudice Preska ha criticato duramente le scelte operate dal Governo argentino, accogliendo le ragioni sostenute da Burford Capital in merito alla determinazione dei parametri da adottare per la corretta quantificazione del risarcimento dovuto, che potrebbe arrivare, nella peggiore delle ipotesi, alla cifra record di 16 miliardi di dollari. La sentenza si limita infatti a stabilire dei parametri sulla base del quale poter addivenire alla quantificazione dell’importo finale da corrispondere a Burford Capital, ordinando alle parti in causa di presentare una proposta di accordo che risulti coerente con le linee guida stabilite dal provvedimento giudiziale.

Da sottolineare come la società YPF (il cui valore attuale di mercato supera di poco i 5 miliardi di dollari) esca indenne dalla disputa giudiziaria, in quanto ogni responsabilità in ordine all’operazione di nazionalizzazione e’ da ricondursi direttamente all’operato del Governo argentino.

Nell’arroventato dibattito politico che si fa ogni giorno più aspro con l’approssimarsi delle elezioni di ottobre, la vicenda ha immediatamente scatenato forti reazioni pubbliche, anche alla luce dell’ampia eco che ha avuto su tutti i mezzi di informazione. Gabriela Cerruti, portavoce del Presidente Alberto Fernandez, ha dichiarato che il Governo argentino continuerà a difendere la propria sovranità energetica e l’azienda statale YPF contro i “fondi avvoltoio” e che verrà presentato appello contro la sentenza emessa dal tribunale newyorkese (se non altro per cercare di rafforzare la debole posizione dell’Argentina nel momento in cui dovrà avviare la negoziazione con Burford Capital per la quantificazione definitiva del risarcimento dovuto). Dichiarazioni rilanciate anche da questo Ministro dell’Economia (e candidato alle Presidenziali) Sergio Massa e dal Governatore della Provincia di Buenos Aires Axel Kicillof (all’epoca principale promotore della nazionalizzazione di YPF), che hanno parlato di una sentenza che mira a ledere la sovranità nazionale e a danneggiare il peronismo in piena campagna elettorale.

Sul fronte opposto Patricia Bullrich, candidata alla presidenza per la coalizione “Juntos por el Cambio”, ha ricordato la sua ferma opposizione all’operazione che, all’epoca, ha portato all’esproprio della compagnia petrolifera in violazione della legge (definita letteralmente una “barbarie”) e ha polemizzato sulle pesanti ricadute economiche che le politiche di stampo kirchnerista stanno comportando a carico delle finanze pubbliche.

Da parte sua, Javier Milei, l’ultra-liberista uscito vincitore dalle recenti primarie presidenziali alla guida della coalizione “La Libertad Avanza”, si è già espresso in piu’ occasioni a favore della privatizzazione di YPF. Su questa specifica vicenda, Milei, ha attaccato frontalmente il Governatore Axel Kicillof per aver avuto un ruolo decisivo, da Ministro dell’Economia, nel processo di nazionalizzazione di YPF e ha rimarcato come questa ennesima sconfitta per l’Argentina sia da ascrivere alle discutibili scelte di politica economica operate, negli ultimi anni, dai suoi avversari politici di “Union por la Patria” e “Juntos por el Cambio”, definiti “casta parassitaria e inutile”.

Crescenti tensioni per la questione dell’idrovia Paraguay-Paranà

Una nave battente bandiera paraguayana è stata costretta a pagare pedaggio per il transito fluviale all’Argentina, nel contesto dell’idrovia Paraguay-Paranà. L’episodio ha esacerbato le tensioni esistenti e ne è scaturito un conflitto diplomatico tra Buenos Aires e Asuncion, con il coinvolgimento – a fianco di quest’ultima – di La Paz, Brasilia e Montevideo. Clima ancora caldo e convocazione (per due volte) dell’Ambasciatore argentino in Paraguay.

Negli scorsi giorni si è surriscaldato notevolmente il clima attorno alla questione dell’idrovia Paraguay-Paranà, che ha registrato (e continua a registrare) crescenti tensioni tra, da un lato, l’Argentina e, dall’altro, i quattro Paesi confinanti coinvolti nell’utilizzo dell’idrovia: Bolivia, Brasile, Paraguay e Uruguay.

L’idrovia Paraguay-Paranà è un corridoio naturale di trasporto fluviale di circa 3400 km, che si estende attraverso i due fiumi da cui prende il nome (Paraguay e Paranà) e che consente la navigazione continua tra i porti (nell’ordine) di: Brasile, Bolivia, Paraguay, Argentina e Uruguay, terminando il proprio corso, infine, nell’Oceano Atlantico. L’idrovia riveste un’importanza chiave per l’economia dei Paesi coinvolti: solo a titolo di esempio, si pensi a due Paesi senza accesso al mare come Bolivia e Paraguay e al caso dell’Argentina, il cui 80% delle esportazioni agricole transitano per il suddetto sistema di navigazione.

Nel 1969 i cinque Paesi firmarono il “Tratado de la Cuenca del Plata” (Trattato del Bacino della Plata), con il quale decisero di promuovere programmi e lavori in aree di interesse comune e l’adozione di misure per promuovere la navigazione fluviale. Nel 1987, a Santa Cruz de la Sierra (Bolivia) i Ministri degli Esteri dei cinque Paesi dichiararono di interesse prioritario lo sviluppo dell’idrovia. Nel 1988, i Ministri dei Trasporti dei cinque Stati si incontrarono e diedero vita al primo incontro internazionale per lo sviluppo dell’idrovia Paraguay-Paranà. L’anno successivo, il programma dell’idrovia fu incorporato nel sistema del Trattato. Venne creato, altresì, un comitato intergovernativo ad hoc (CIH Comite Intergubernamental de la Hidrovia Paraguay-Parana’), che costituisce oggi il contesto di dialogo per le questioni attinenti al tema.

A partire dal gennaio 2023 l’Argentina ha deciso di imporre un pedaggio di 1.47 dollari a tonnellata trasportata al passaggio per le sue acque. Le tensioni sono cresciute fino a quando, la scorsa settimana, l’Argentina ha bloccato un’imbarcazione battente bandiera paraguayana, che si rifiutava di pagare i 27.000 dollari richiesti, poi corrisposti.

L’episodio ha costituito il culmine delle tensioni finora registrate, con i quattro Paesi limitrofi che hanno fatto sentire la propria voce e hanno denunciato attraverso un comunicato congiunto di questo 10 settembre le “misure restrittive alla navigazione imposte dall’Argentina” attraverso “un pedaggio unilaterale e arbitrariamente stabilito”, chiedendo quindi che Buenos Aires ritiri le misure imposte e garantisca la libertà di navigazione e transito.

Dopo che l’Ambasciatore argentino in Paraguay – Domingo Peppo – è stato convocato dal locale Ministero degli Esteri, Flavia Royon, Segretaria per l’Energia dell’Argentina, è volata ad Asuncion lunedì per incontrare il Ministro degli Esteri paraguayano e stemperare gli animi. A conclusione della riunione, ha comunicato – attraverso un tweet che è stato trovato un punto di accordo nel diritto dell’Argentina di riscuotere un pedaggio per il funzionamento dell’idrovia. Nonostante aleggiasse un principio di accordo a seguito dell’incontro, le prospettive si sono parzialmente intorbidite, stante l’apparente intransigenza della posizione argentina esternata da Royon. Di fatto, il Paraguay non sarebbe asseritamente contrario all’imposizione di una tariffa, ma vorrebbe che questa fosse concordata tra tutte le parti in causa.

Da ultimo, l’Ambasciatore argentino ad Asuncion è stato nuovamente convocato – per giovedì 14 settembre – per le sue dichiarazioni stampa, in cui ha responsabilizzato Asuncion e sostenuto che il Paraguay “sta oltrepassando il limite”.

Appare chiaro che, per il momento, la tensione tra Buenos Aires e Asuncion e, in maniera più sfumata, tra l’Argentina e gli altri Paesi coinvolti nel sistema dell’idrovia, è ancora alta. Nonostante le giustificazioni tecniche del pedaggio (dovuto ai costi di mantenimento del passaggio marittimo), sembra che il clima attuale registri quei toni tipici di un Paese alla ricerca – in piena campagna presidenziale – di nemici esterni per compattare l’opinione pubblica interna e generare consenso attorno a un esecutivo che necessita mostrare una postura forte e autorevole, anche per non sfigurare – in ottica elettorale – dinanzi alla personalità istrionica di Milei.

Un aereo delle Frecce Tricolori si schianta contro un’auto a Torino-Caselle: travolta un’intera famiglia, morta una bimba di 5 anni, ustionato il fratello di 12

Un tragico incidente aereo si è verificato intorno alle 16,30 di sabato pomeriggio nei pressi dell’aeroporto Torino-Caselle. Un aereo delle Frecce Tricolori, coinvolto in un test in preparazione per una prevista esibizione domenicale, ha subito un’improvvisa perdita di quota a causa di uno stormo di uccelli. La tragedia si è consumata quando l’aereo si è separato dalla formazione degli altri velivoli e si è schiantato al suolo nei pressi dell’aeroporto.

Morta una bimba di 5 anni, feriti il fratello e i genitori
Nel drammatico schianto, un’automobile è stata coinvolta, con conseguenze devastanti per un’intera famiglia. Una bambina di soli 5 anni ha perso la vita, mentre il suo fratellino di 12 anni è rimasto gravemente ustionato ed è stato immediatamente ricoverato all’ospedale Regina Margherita di Torino. La madre, anch’essa ustionata, è stata trasportata in codice giallo al Cto, mentre il padre e il pilota dell’aereo, entrambi con ustioni, sono stati anch’essi portati in codice giallo rispettivamente al Cto e al San Giovanni Bosco.

La dinamica dell’incidente
I testimoni presenti sul luogo dell’incidente hanno catturato momenti terribili con i loro telefoni. Le immagini mostrano l’aereo delle Frecce Tricolori in fiamme dopo l’impatto a terra e il pilota che viene espulso dall’abitacolo utilizzando il paracadute solo pochi secondi prima dell’incidente. A quanto si apprende, l’aereo ha continuato la sua corsa fuori dalla pista, finendo contro alcuni veicoli. Si attendono ora le indagini per comprendere appieno le cause dell’incidente e le responsabilità coinvolte.

«Le prime voci che circolano nell’ambiente parlano di un Birdstrike, ossia il risucchio nel motore di volatili. Ma è chiaro che bisognerà aspettare tutte le perizie del caso. È un giorno tristissimo. Aspettavamo questa manifestazione da tempo». Alberto Bannino, presidente dell’Aeroclub Torino di Collegno ha la voce rotta dallo sconforto parlando del disastro della Freccia Tricolore a Caselle. Doveva essere un fine settimana di festa per i 100 anni dell’Aeronautica: si è trasformato in una terribile giornata. «Quando il motore di un aereo colpisce degli uccelli o, peggio, questi finiscono nel motore, si crea una situazione davvero complicata e anche il pilota più esperto può andare in difficoltà. Poi staremo a vedere se non ci sia stata qualche avaria, ma le posso garantire che i volatili rappresentano davvero un incubo per tutti quelli che pilotano un aereo».

La manifestazione è stata ovviamente annullata, anche perché le Frecce sono atterrate a Linate dopo uno scalo veloce proprio a Collegno. «Qui al campo volo non è mai capitato un incidente definibile grave – continua Bannino -, qualche piccolo guasto, eliche che prendono sì degli uccelli ma senza conseguenze. Siamo tutti molto tristi». Circa un’ora prima del disastro di Caselle, proprio a Collegno durante la manifestazione in corso c’era stato un problema con un altro aereo. Il pilota in fase di atterraggio non era riuscito a frenare in tempo per un guasto al sistema e ha terminato la corsa a fine pista, piegandosi su un’ala nel prato. Per fortuna ne è uscito illeso, ma c’è stata un po’ di tensione per l’arrivo di vigili del fuoco e ambulanze. Qualcuno ora lo definisce un triste presagio di quello che sarebbe capitato di lì a poco. Le operazioni di recupero e rimozione dell’aereo sono andate avanti per un paio d’ore.

Nadia Bergamini, Irene Famà e Massimiliano Rambaldi (pubblicato da Il Secolo XIX il 16/09/2023)

Tratto da: Un aereo delle Frecce Tricolori si schianta contro un’auto a Torino-Caselle: travolta un’intera famiglia, morta una bimba di 5 anni, ustionato il fratello di 12 – Il Secolo XIX

La battaglia ventennale della Lega: nuovo progetto di legge sull’obbligo del crocifisso

La Lega torna alla ribalta riscoprendo un suo famoso cavallo di battaglia, il crocifisso. A firma della deputata Simona Bordonali, un nuovo progetto di legge depositato alla Camera chiede l’obbligo del simbolo religioso in ogni luogo pubblico. Dalle scuole ai porti. Pena una multa fino a 1000 euro. L’iniziativa del Carroccio si inserisce però in una lista densa di proposte sul tema che negli anni, dal 2018 a oggi, sono state accantonate senza non poche polemiche.

Ad anticipare la questione ci ha pensato la Regione Lombardia dove, già nel 2011, il partito di Matteo Salvini è riuscito a far approvare una proposta simile. 2500 euro per l’acquisto di crocifissi da esporre negli edifici della regione. A pochi anni di distanza, dal nord Italia la bagarre raggiunge la capitale.

Nel marzo del 2018 la deputata Barbara Saltamartini inaugura la questione con il progetto di legge 287, intitolato “Disposizioni concernenti l’esposizione del Crocifisso nelle scuole e negli uffici delle pubbliche amministrazioni”. Con il supporto dello schieramento leghista, il testo propone l’introduzione del crocifisso in quasi ogni ufficio pubblico, spingendosi anche oltremare nelle sedi diplomatiche. A giustificarne l’introduzione, secondo la deputata, il “valore universale della civiltà e della cultura cristiana” che il crocifisso rappresenta. Una sentenza del Consiglio di Stato del 1988, in cui l’organo riconosce l’importanza dell’oggetto in questione “indipendentemente da una specifica confessione religiosa”, viene evidenziata dal Carroccio come base legale per la proposta.

Mentre alla Camera dei deputati tutto finisce in un nulla di fatto, nel suo luogo d’origine, il Nord-Est, la battaglia si allarga ancora di più. A Trieste, su proposta dell’assessora leghista Angela Brandi, viene approvato l’obbligo di esporre il simbolo religioso nelle aule e una quota di massimo il 30% di studenti stranieri in ogni classe. In Veneto il governatore leghista Luca Zaia concede 250 euro di contributo a ogni scuola che costruisce un presepe al suo interno. Una cifra irrisoria rispetto ai 50 mila euro spesi dal presidente leghista della provincia di Trento Maurizio Fugatti per pagare una scorta privata ai fedeli che frequentano la basilica di Santa Maria Maggiore.

A forza di progetti ed emendamenti, l’obiettivo della Lega diventa una parte della sua stessa identità. O per lo meno a vederla così sono gli elettori. È proprio in quei mesi che, dopo aver accusato il “Vade Retro” in prima pagina di Famiglia Cristiana, Matteo Salvini compare lungo una strada di Roma. Tunica da prete e “Love” tatuato sulle dita, nelle mani tiene una bibbia e un crocefisso, teso a simboleggiare una sorta di “esorcismo nazionale”.

Nel settembre del 2021 con la sentenza n. 24414 la Cassazione mette un punto alla questione. Crocifisso sì, ma solo se a volerlo è la stessa comunità scolastica. Tutto questo però, come sottolinea la stessa Cassazione, vale in mancanza di una legge sul tema. Ed ecco che, invariato nella forma se non nella multa, passata da 500 a 1000 euro, il progetto ritorna in aula. A cambiare sono solo le firme apposte, ma la battaglia del Carroccio non accenna ad avere una fine.

Lorenzo Sangermano (pubblicato da La Repubblica il 16/09/2023)

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