Monthly archive

November 2019

Cittadinanza ai migranti, per il 56% degli italiani le urgenze sono altre

Il tema del riconoscimento della cittadinanza degli stranieri è tornato d’attualità dopo l’intervento di Nicola Zingaretti all’assemblea del Pd della scorsa settimana a Bologna. Si tratta di un tema divisivo che è stato oggetto di molte polemiche, anche all’interno del centrosinistra. Il sondaggio odierno evidenzia un aumento dell’«apertura» da parte degli italiani, anche se la maggioranza degli intervistati è del parere le priorità in questo momento siano altre, complice il fatto che il segretario del Pd ha avanzato la sua proposta nei giorni in cui l’attenzione era dedicata prevalentemente ad altre vicende, dall’Ilva, al Mose, all’Alitalia. Infatti, il 56% concorda con Di Maio che nei giorni scorsi si è dichiarato sconcertato definendo la proposta del segretario dem «uno slogan», mentre il 27% dà ragione a Zingaretti il quale, sebbene vi siano temi più urgenti, ritiene sia giusto approvare entro la fine della legislatura una legge per estendere i diritti di cittadinanza. Le risposte degli elettori Pd e 5 Stelle sono diametralmente opposte: tra i primi il 74% è d’accordo con il segretario (ma quasi uno su cinque — il 19% — dissente); tra i secondi il 78% sta con il capo politico del Movimento, mentre il 16% è contrario. Tra tutti gli altri, con l’eccezione delle liste minori di sinistra e centrosinistra, prevale l’idea che oggi il governo si dovrebbe occupare di altro.

Elettori M5S al bivio

In generale la normativa attuale — che prevede la concessione della cittadinanza a chi non è figlio di cittadini italiani solo in alcuni casi specifici (dopo il compimento della maggiore età e dopo 10 anni di permanenza ininterrotta nel nostro paese, oppure per matrimonio) e in assenza di procedimenti penali — è giudicata positivamente dal 56% degli italiani (in crescita di 3 punti rispetto allo scorso mese di marzo) e negativamente dal 34% (dato stabile). Lo ius soli, ossia la possibilità di estendere la cittadinanza ai figli di immigrati , se nati nel nostro Paese e con almeno un genitore che ha un permesso di soggiorno permanente in Italia, divide nettamente le opinioni 48% i favorevoli, 47% i contrari. Anche in questo caso si registra una crescita di 3 punti dei favorevoli. Diversi invece gli atteggiamenti nei confronti dell’ipotesi di concedere la cittadinanza a figli di immigrati, se nati in Italia (o arrivati entro i 12 anni), e abbiano frequentato regolarmente per almeno cinque anni le scuole nel nostro paese, cioè il cosiddetto ius culturae: i favorevoli prevalgono sui contrari 53% a 39%, e anche in questo caso il dato mostra una crescita di 3 punti rispetto a marzo. In termini di comportamento politico si conferma una sostanziale distanza tra le opinioni degli elettori di centrosinistra e quelli di centrodestra, mentre i pentastellati appaiono divisi al loro interno.

Gli aspetti semantici

L’atteggiamento di maggiore apertura va ricondotto a due aspetti: innanzitutto la minore importanza attribuita alla questione immigrazione, basti pensare che oggi il 28% menziona il tema degli stranieri tra le priorità del Paese mentre un anno fa era il 45%; in secondo luogo il consolidamento della distinzione tra gli stranieri presenti in Italia e quelli che potrebbero arrivare. Rispetto ai primi che, come sappiamo, si identificano con le persone frequentate quotidianamente (dalla badante, ai bambini che frequentano le scuole dei propri figli o nipoti), prevale un atteggiamento di inclusione. Al contrario, permane una diffusa inquietudine sui possibili nuovi flussi di stranieri. Da ultimo una riflessione sugli aspetti semantici connessi alla cittadinanza: parlare di ius soli e ius culturae può suonare ostico e rappresentare una sorta di spauracchio per i più. Al contrario, quando i concetti vengono declinati nella realtà quotidiana, le reazioni dei cittadini sono diverse. È sorprendente che in un’epoca nella quale non mancano consulenti per la comunicazione e spin doctor, si sottovaluti il rischio che alcuni termini, oltre ad essere poco familiari, possano produrre effetti esiziali.

Nando Pagnoncelli (pubblicato da Il Corriere della Sera il 23/11/2019)

Lo sport italiano all’estero secondo Andrea Pedemonte

Lascio l’Argentina con una riflessione. Negli ultimi 4 anni mi sono occupato di progetti sportivi per italiani all’estero. Mi domando quanto il mondo sportivo italiano stia realmente riflettendo su questo argomento che, a mio avviso, sarà una delle principali sfide per il nostro sport nei prossimi anni.

L’espressione “sport italiano all’estero” in realtà racchiude diversi aspetti: dall’utilizzo dello sport insieme al “Sistema Italia” per promuovere nel mondo il nostro turismo (come abbiamo fatto con Enit e Maratona di Roma), la nostra cultura (insieme agli Istituti di cultura italiana) e il nostro commercio (con le Camere di Commercio italiano); passando per la valorizzazione del turismo sportivo incoming (sia pubblico di eventi sia sportivi praticanti); arrivando ad utilizzare lo sport per insegnare l’italiano (come il progetto realizzato con il Consolato di Buenos Aires); fino a coinvolgere i circa 80 milioni di discendenti di italiani sparsi per il mondo creando un legame tra loro e il nostro paese, soprattutto con le nuove generazioni.

Mi interessa però soprattutto l’aspetto riguardante l’emigrazione italiana, fenomeno con tendenza crescente di anno in anno. Gli ultimi dati dicono che sono 1.178.717 gli italiani residenti all’estero tra i 18 e i 35 anni (dunque in piena attività fisica). 794.467 sono i minori e negli ultimi 4 anni sono espatrati dall’Italia 98.853 minori di cui 60.031 avevano tra i 0 e i 9 anni. A questi vanno aggiunti i 313.119 italiani nati direttamente all’estero nello stesso periodo di tempo. Inoltre ad emigrare sono in prevalenza giovani coppie, molte delle quali, presumibilmente, avranno figli italiani all’estero nei prossimi anni.

Quanti di queste ragazze e ragazzi stavano svolgendo un’attività sportiva in Italia? Quanti hanno proseguito una volta migrati? A che livelli? Quanti minori italiani inizieranno tra poco la loro attività fisica fuori dai confini nazionali?
Il mondo sportivo italiano rischia di perdere delle risorse enormi in termini di potenziali atleti, non avendo neppure una fotografia completa del loro numero e distribuzione e senza poter monitorare la loro crescita sportiva.

Va cambiato il vecchio concetto di “atleta di formazione italiana” che, in un mondo caratterizzato da costanti flussi migratori, è ancora legato in modo obsoleto al luogo fisico di residenza. Andrebbero invece create delle Accademie sportive italiane sparse per il mondo dove formare con metologie certificate dal CONI e dalle FSN. In questo la Federazione Italiana Hockey è stata all’avanguardia.

Andrebbero creati degli Istituti Sportivi Italiani sul modello degli Istituti di Cultura Italiani sparsi per il mondo per diffondere e promuovere lo sport italiano, la sua storia, i suoi eventi.

Andrebbe utilizzato lo sport per far integrare nei nuovi paesi i giovani italiani emigrati e tutelare la loro salute evitando una vita sedentaria (per chi emigra lo sport spesso non rientra tra le priorità, soprattutto economiche), andrebbe utilizzato lo sport per coinvolgere i giovani discendenti italiane nelle migliaia di associazioni di connazionali all’estero: un patrimonio enorme, spesso sottovalutato e che stiamo per perdere.

Andrea Pedemonte

La cittadinanza romana: cittadini e barbari

“Civis Romanus sum“. Così si definiva Cicerone. Ma cosa significava realmente essere un cittadino romano, e chi poteva ottenere un simile privilegio? Differentemente dagli altri popoli antichi, diventare un romano era molto più semplice.

I greci erano estremamente restii a concedere la cittadinanza. Non solo Sparta, ma anche Atene divenne una società sostanzialmente chiusa dai tempi di Pericle. Soltanto i cittadini maschi adulti, discendenti da ateniesi, avevano diritti politici. Nemmeno Aristotele, proveniente da Stagira, aveva alcun diritto quando si trovava ad Atene.

Non tutti i Greci, però, la pensavano allo stesso modo. Alessandro Magno desiderava che persiani e greci si fondessero in un unico popolo, ma il suo progetto venne stroncato dalla prematura morte. Dopo di lui ci fu una divisione fra greci e macedoni e il resto della popolazione.

Essere romani non significava essere abitanti di Roma. O del lazio. O dell’Italia. Anzi, per i romani, chiunque (o quasi) poteva diventare un cittadino. Un concetto apparentemente semplice, ma rivoluzionario per l’epoca. E certamente un punto fondamentale della forza di Roma.

Fin dalla sua fondazione, Roma è stata aperta agli stranieri. Romolo fondò un asylum per accogliere chi veniva da fuori e renderlo romano. Tre dei sette re di Roma sono etruschi diventati romani.

In ogni livello della società, in ogni epoca, ci sono stranieri che diventano cittadini romani e spesso ricoprono posti di comando.

L’atteggiamento dei romani era estremamente pragmatico: accogliere gli stranieri e renderli romani, a partire dalle élite, uniformando gradualmente i costumi ma mantenendo intatte le usanze e lingue locali , portando i vinti a trasformarsi volontariamente in romani (che era pur sempre un privilegio giuridico e fiscale).

Un lungo processo di integrazione: dalla nascita della Res Publica alle guerre puniche

A Roma la schiavitù per debiti perdurò a lungo e ciò influenzò pesantemente la storia sociale della città. Le XII Tavole furono compilate dai decemviri legibus scribundis consulari imperio nel 451-450 a.C. (cioè nello stesso anno in cui Pericle chiuse l’accesso alla cittadinanza ateniese), su pressione dei tribuni della plebe, in seguito all’aspra lotta tra patrizi e plebei sviluppatasi negli anni precedenti. Quello che è più interessante riguardo la cittadinanza è che i figli venduti e poi riacquistati dal padre potevano tornare liberi, infatti si legge nella Tavola IV:

“Si pater filium ter venum duit, filius a patre liber esto”
“Se un padre vende un figlio per tre volte consecutive, il figlio è libero dal padre”

Subito dopo la redazione delle XII tavole, nel 449 a.C., la plebe si rafforzò ulteriormente grazie alle Leges Valeriae Horatiae, che concedevano il diritto di veto ai tribuni della plebe.

Nel 367 a.C. vennero approvate le Leges Liciniae Sextiae, proposte dai tribuni della plebe Gaio Licinio e Lucio Sestio Laterano. Oltre a limitare (nella teoria) il possesso delle terre in modo che tutti ne avessero abbastanza per vivere, si concedeva alla plebe l’accesso al consolato. Tale affermazione risulta ancora più importante se si considera che potevano appartenere alla plebe anche stranieri che avevano ottenuto la cittadinanza.

Nel 326 a.C. (o nel 313 a.C.) venne definitivamente abolito il nexum, ossia la schiavitù per debiti, con la Lex Poetelia Papiria. In seguito ad ulteriori scontri tra plebei e patrizi, da cui scaturì nel 287 a.C. la Lex Hortensia, che equiparava i plebiscita alle leges comitiales, nel 286 a.C. fu approvato un plebiscito, la Lex Aquilia, che superò la legislazione delle XII tavole. Essa era composta da tre capitoli:

I capitolo riguardante il damnum derivante dalla perdita di oggetti materiali, compresi gli schiavi.
II capitolo riguardo l’inadempienza dell’adstipulator, ad esempio nel caso in cui riscuota il debito e trattenga per sé la cifra riscossa.

III capitolo sul damnum di azioni come uccidere o rompere, sia di soggetti liberi che di oggetti, schiavi compresi.

Dalle guerre puniche alla fine della Repubblica

Nel 241 a.C. le tribù divennero 35, e tali restarono nei secoli a venire. Dunque il sistema politico romano cominciò a consolidarsi. Le tribù sono importanti perché i nuovi cittadini venivano iscritti in una determinata tribù a seconda del luogo.

Le tre Leges Porciae, approvate rispettivamente nel 199, 195 e 184 a.C. ampliavano i diritti dei cittadini romani. Erano composte da

  1. Lex Porcia I, detta Lex Porcia de capite civium, proposta dal tribuno della plebe Publio Porcio Laeca, estese il diritto di provocatio, ovvero ampliò la possibilità di appello ai cittadini residenti non solo nella città di Roma, ma in tutti i territori romani.
  2. Lex Porcia II, detta Lex Porcia de tergo civium, su proposta del console Marco Porcio Catone il Vecchio, permise la provocatio anche contro la fustigazione. Nessun cittadino romano sarebbe stato più torturato d’ora in poi prima di un processo.
  3. Lex Porcia III, su proposta di Lucio Porcio Licino, prevedeva sanzioni severe (forse anche la pena capitale) per i magistrati che non avessero concesso la provocatio.

Alla fine del II secolo, a causa dell’enorme ampliamento territoriale, la Repubblica Romana comprendeva l’Italia, quasi tutte le isole più importanti del Mediterraneo (ad esclusione di Cipro), buona parte della penisola iberica, la Gallia meridionale, l’Africa ex-cartaginese, la Macedonia, la Grecia e l’Asia Minore Occidentale e dunque la popolazione romana era sempre più multietnica. In seguito alla vittoria di Pidna e la sottomissione della Macedonia i cittadini romani furono esentati, nel 167 a.C., dal pagamento di imposte dirette.

Ci fu un enorme aumento della popolazione schiavile, che se da un lato portò alle guerre servili in Sicilia (dove c’erano moltissimi schiavi impiegati in agricoltura; la Sicilia fu il granaio di Roma dalla sua conquista per tutta l’epoca repubblicana) e alla pericolosa rivolta di Spartaco.

In quest’epoca il servizio nell’esercito non permetteva di diventare cittadini. Piuttosto, come sempre nella storia di Roma, molti notabili locali ottenevano la cittadinanza. Tuttavia gli oneri militari continuavano a gravare sui socii italici. Essi dovevano fornire uomini all’esercito Romano, e contemporaneamente non solo non vedevano riconosciuti i loro diritti, ma allo stesso tempo vedevano ex-schiavi diventare cittadini romani, mentre a loro questa opportunità era preclusa.

Il malcontento serpeggiava già quando Gaio Gracco nel 122 a.C. propose almeno la cittadinanza romana ai Latini e quella latina agli Italici, ma venne ucciso l’anno seguente. La stessa legge del fratello maggiore di Gaio, Tiberio, una Lex agraria, proponeva si ripartire in maniera più equa i terreni pubblici, ma fra i soli cittadini romani, sebbene anch’egli volesse in qualche modo ampliare il possesso della cittadinanza ai popoli italici. Lo scopo di Tiberio, tuttavia, era principalmente di mantenere il sistema di contadini-soldati che formava le legioni.

La Lex Aemilia de libertinorum suffragiis, del 115 a.C., invece, concedeva, con alcune limitazioni, il diritto di voto ai liberti (che però non godevano della possibilità di candidarsi). Poteva dunque succedere che uno schiavo di una qualsiasi provenienza etnica una volta liberato potesse votare, mentre gli Italici, fedeli a Roma da secoli, non potevano in alcun modo esprimere il loro peso politico.

Poco tempo dopo la Lex Minicia stabiliva che in un’unione tra una romana e uno straniero sprovvisto di ius connubii, il figlio otteneva la cittadinanza paterna. La situazione si aggravò ulteriormente quando, nel 95 a.C., venne approvata la Lex Licinia Mucia de Civibus Regundis, che vietava ai non cittadini di spacciarsi per tali, pena l’allontanamento dall’Urbe.

Il tribuno della plebe Marco Livio Druso nel 91 a.C. propose l’estensione della cittadinanza romana a tutti gli Italici, ma subì una strenua opposizione da parte del Senato, l’ordine equestre e di quasi tutti i cittadini romani, che non volevano condividere i loro privilegi, e venne assassinato poco tempo dopo.

Ciò provocò la sollevazione dei popoli italici, a partire da Ascoli, dove venne massacrata la popolazione romana. Gli Italici si organizzarono in una lega italica, con capitale a Corfinium, che venne ribattezzata Italica e coniò proprie monete con la scritta “Italia”. Per la prima volta nella storia si pensava all’Italia come ad una nazione.

I Romani, nonostante avessero riportato vittorie sui ribelli, compresero che i tempi erano cambiati, e nel 90 a.C. il console Lucio Giulio Cesare fece promulgare una Lex Iulia de civitate. Essa concedeva la cittadinanza romana ai popoli rimasti fedeli e a coloro che avessero tempestivamente deposto le armi. La mossa si rivelò vincente, dato che spaccò il fronte della rivolta.

L’anno seguente, l’89 a.C., venne approvata la Lex Plautia Papiria, che integrava la precedente Lex Iulia. Essa stabiliva che i cittadini di città federate con domicilio in Italia avrebbero ottenuto la cittadinanza romana se avessero dato il loro nome al pretore nei sessanta giorni seguenti.

Se da un certo punto di vista la guerra sociale fu una vittoria per gli Italici, dall’altro fu compromesso l’assetto politico di Roma. I nuovi cittadini abitavano lontano dall’Urbe e raramente prendevano parte ai comizi, ma contemporaneamente formavano la maggioranza delle reclute delle legioni, che nel I secolo a.C. erano ormai accessibili a qualunque cittadino romano. Il potere si spostò dunque dalle assemblee all’esercito, conducendo la Repubblica alla sua morte.

Dovettero esserci stati degli abusi dopo la Lex Plautia Papiria, visto che nel 65 a.C. venne promulgata la Lex Papia de peregrinis, che toglieva la cittadinanza a chiunque l’avesse conseguita illegalmente o a chi si spacciava cittadino romano pur non essendolo. In base a questa legge finì in tribunale anche il maestro di Cicerone, Aulo Licinio Archia, che venne difeso con successo dall’ex allievo.

Nel 58 a.C. venne promulgata una legge fondamentale per i diritti dei cittadini, la Lex Clodia de capite civis Romani. Se lo scopo principale di Publio Clodio Pulcro era di allontanare Cicerone dopo la condanna a morte dei sostenitori di Catilina, durante il suo consolato nel 63 a.C., senza alcun processo, tuttavia rafforzò la possibilità di richiedere la provocatio ad populum alla popolazione romana.

Nel 49 a.C. venne varata, su interessamento di Cesare, la Lex Roscia. Essa riconosceva la cittadinanza romana con pieni diritti agli abitanti della Gallia Cisalpina, che nell’89 a.C. avevano già ricevuto la cittadinanza latina grazie alla Lex Pompeia de Transpadanis. Molte colonie latine si trasformarono in municipi romani, favorendo l’urbanizzazione. Infine, con l’abolizione della provincia della Gallia Cisalpina nel 42 a.C., tutti gli italici divennero cittadini romani di pari livello.

Il rifiuto di essere romani

Non sempre però le cose vanno nel migliore dei modi. Nel 9 d.C., nella selva di Teutoburgo (identificata nell’odierna Kalkriese, in Bassa Sassonia), un germano cherusco e cavaliere romano, Arminio, rinnegò la sua romanità per sollevare la sua popolazione natia contro i conquistatori, trucidando, nel corso di un’imboscata durata tre giorni, le tre legioni e i reparti ausiliari di Publio Quintilio Varo (inviato da Augusto ad annettere la Germania).

Arminio, per suo calcolo personale, aveva preferito essere a capo di una tribù germanica che essere un cavaliere romano e forse, in futuro, un senatore. Arminio era stato inviato in gioventù a Roma come ostaggio, non era un barbaro appena romanizzato.

Pochi anni più tardi Tiberio fece delle spedizioni punitive e riconquistò diverse aquile delle legioni distrutte. Germanico, figlio adottivo dell’imperatore, guidò i romani oltre il Reno e sconfisse Arminio a Idistaviso, distruggendo il suo esercito.

Poco prima della battaglia si incontrarono, divisi da un fiume, Arminio e il fratello Flavo (ossia “il biondo”), che militava tra i reparti ausiliari romani. Il loro fu un vero e proprio scontro ideologico:

“[…] (Arminio) chiese al fratello l’origine di quello sfregio sul volto. Quest’ultimo gli riferì il luogo e la battaglia. Arminio chiese ancora quale compenso avesse ricevuto. Flavo rammentò lo stipendio accresciuto, la collana, la corona e gli altri doni militari, mentre Arminio irrideva la sua servitù a Roma per quegli insignificanti e vili compensi ricevuti […] continuarono a parlare, Flavo esaltando la grandezza di Roma, la potenza di Cesare, la severità contro i vinti, la clemenza verso coloro che si arrendevano, la generosità verso la moglie e il figlio dello stesso Arminio, trattati non come nemici. Arminio, dal canto suo, ricordando la religione della patria, l’antica libertà, gli dei della nazione germanica, la madre di entrambi, alleata a lui nelle preghiere […]. A poco a poco passati ad insultarsi, poco mancò che si gettassero l’uno contro l’altro”.

Tacito, Annales, II, 9-10.

L’idea romana di cittadinanza

Durante un discorso in senato nel 48 d.C., l’imperatore Claudio propose una legge che concedeva lo ius honorum (il diritto a ricoprire cariche politiche) ai cittadini Romani della Gallia Comata, cioè la possibilità di entrare in senato.

Ci furono dure reazioni dei senatori, indignati. Claudio allora pronunciò un discorso storico, riportato da Tacito e confermato da un’epigrafe rinvenuta a Lione:

”I miei antenati, al più antico dei quali, Clauso, venuto dalla Sabina, furono conferiti insieme la cittadinanza romana e il patriziato, mi esortano ad adottare gli stessi criteri […] non ignoro che i Giuli vennero da Alba, i Coruncanii da Camerio, i Porcii da Tuscolo e, per non risalire ad epoche più antiche, furono tratti in Senato uomini dall’ Etruria, dalla Lucania e da tutta l’Italia […] A quale altra cagione fu da attribuirsi la rovina degli Spartani e degli Ateniesi, se non al fatto che essi, per quanto prevalessero con le armi, consideravano i vinti come stranieri? Romolo, nostro fondatore, fu invece così saggio che ebbe a considerare parecchi popoli in uno stesso giorno prima nemici e subito dopo concittadini. Stranieri presso di noi ottennero il regno […] O padri coscritti, tutte le cose che si credono antichissime furono nuove un tempo […] Anche questa nostra deliberazione invecchierà, e quello che oggi noi giustifichiamo con antichi esempi, sarà un giorno citato fra gli esempi.”

Tacito, Annales, XI, 24

Naturalmente alla fine la legge di Claudio passò. Ma il suo discorso è emblematico: quando ci si discosta da una certa idea, bisogna tornare alla linea tradizionale romana: gli stranieri sono ben accetti, purché si romanizzino.

San Paolo

Caso lampante per comprendere la cittadinanza a Roma è quello di San Paolo: ebreo di Tarso in Cilicia, parlante solamente greco ed ebraico (forse conosceva anche l’aramaico e qualche parola in latino), perfettamente ellenizzato, è cittadino romano fin dalla nascita.

Egli predicava a Gerusalemme, quando la popolazione ebraica insorge e lo fa arrestare. Portato dinanzi al tribuno Lisia, questi si prepara a farlo flagellare, quando Paolo dichiara di essere cittadino romano. Il tribuno, allarmato, ordina subito di rilasciarlo, poiché nessun cittadino romano poteva essere torturato prima di essere processato:

“Vi è lecito flagellare un cittadino romano e per di più non ancora giudicato?” Udito ciò, il centurione si avvicinò al tribuno per avvertirlo, dicendo: “Che cosa stai per fare? Quest’uomo è romano!” Allora, avvicinatosi, il tribuno gli disse: “Dimmi, tu sei romano?” Ed egli rispose: “sì!”. “Io – riprese il tribuno – ho acquistato questa cittadinanza a caro prezzo”. E Paolo: “Io invece vi sono nato”. E subito si allontanarono da lui quelli che stavano per interrogarlo. Anche il tribuno si intimorì, avendo saputo che era romano, perché l’aveva fatto legare.”

Atti degli Apostoli, XXII, 25-29

Dal racconto emerge anche il fatto che il tribuno Claudio Lisia aveva ottenuto la cittadinanza tramite la corruzione: una pratica non tutto da escludere neanche nell’antichità.

Come ottenere la civitas roman

Esistevano vari modi per diventare romani. Per un libero:

  • servizio nell’esercito (dopo 25 anni nei reparti ausiliari)
  • discendenza da un cittadino romano (nel caso di matrimonio legittimo si eredita la cittadinanza paterna, in caso contrario quella materna)
  • concessione diretta dell’imperatore
  • in quanto membro di un élite locale (adlectio)
  • tramite annessione di intere tribù a municipi o colonie romane (adtributio)
  • adozione da parte di un cittadino romano

Per gli schiavi esistevano vari tipi di manomissione:

  • davanti un magistrato
  • tramite testamento
  • registrando lo schiavo nelle liste di cittadini romani

O informalmente (giuridicamente meno tutelati):

  • tra amici si dichiarava di concedere la libertà allo schiavo
  • per epistola allo schiavo liberato
  • per mensam, lo schiavo veniva invitato a mangiare col padrone
  • in ecclesia, cioè davanti le autorità della Chiesa

Un impero di romani

Fino all’inizio del III secolo d.C. la popolazione era divisa grossomodo fra:

  • cittadini romani
  • cittadini latini
  • peregrini
  • dediticii
  • schiavi

A loro volta i cittadini romani nati liberi (ingenui) avevano maggiori diritti degli schiavi affrancati. I peregrini erano gli abitanti liberi delle province: letteralmente il termine indica gli stranieri venuti da fuori, ma nell’accezione romana sono stranieri nella loro stessa terra dopo la conquista di Roma. I dediticii sono la più bassa condizione di libertà, riservata a popolazioni tribali estremamente arretrate e ad alcuni schiavi affrancati: il termine significa “che si è dato” e indicava le popolazioni che si erano concesse ai romani in cambio della vita.

Nel 212 d.C. l’imperatore Caracalla concede la cittadinanza romana a tutti gli abitanti liberi dell’impero, attraverso un famoso editto, la cosiddetta Constitutio Antoniniana (il nome completo dell’imperatore era Marco Aurelio Antonino Caracalla – il padre Settimio Severo si era auto retroattivamente fatto adottare da Marco Aurelio).

Per quale motivo venne promulgato questo provvedimento è del tutto ignoto. Si suppone una motivazione fiscale (far pagare anche le tasse riservate ai cittadini romani) o demografica (arruolare nuove legioni) o etiche (l’imitazione di Alessandro Magno). Quel che è certo è che da allora l’unica distinzione vigente è tra coloro che sono dentro l’impero e che coloro che non ne fanno parte.

Non possediamo il testo dell’editto e la nostra fonte più attendibile, Cassio Dione, solitamente avverso a Caracalla, sorvola ampiamente la questione, parlandone appena. Venne rinvenuto un papiro in Egitto, il papiro di Giessen, che casualmente riportava parte del testo, ma era lacunoso per quanto riguardava i dediticii: insomma, non è chiaro se anche loro fossero compresi, anche se gli studiosi propendono per il no.

Sicuramente dopo Caracalla si forma una distinzione netta: i romani sono quelli che abitano all’interno dell’impero e i barbari restano (spesso) barbari. La concessione a tutti della cittadinanza aveva paradossalmente costruito un muro con l’esterno; non sappiamo infatti come venissero accolti gli stranieri e se questi potessero diventare romani.

Quando arriveranno popolazioni germaniche in massa, queste finiranno per mantenere la loro identità non romana. Dall’unione tra l’elemento germanico e quello romano si conserveranno molti elementi romani, ma saranno i germani a detenere il potere, e si presenterà l’evento opposto: all’epoca di Carlo Magno essere un “franco” significherà essere un uomo libero, e si faranno chiamare così tanto i romani quanto i barbari. Questo accadrà per tutti i regni romano-barbarici e porterà alla formazione di identità proto-nazionali.

L’onomastica romana

Il modo di comporre i nomi a Roma fu un’operazione lunga e complessa; solo nel III secolo a.C. si formò l’onomastica classica che conosciamo, composta da praenomen, nomen e cognomen: rispettivamente indicavano il nome proprio (alla fine i praenomina si ridussero a pochissimi come Gaio, Lucio, Sesto, Tito, etc. tanto da poter essere abbreviati con l’iniziale – ad esempio M. per Marcus), mentre il secondo era il gentilizio (il nome della famiglia – ad esempio i Domizi, i Giuli, gli Aureli, i Fabii etc.), infine l’ultimo era un soprannome (es. Rufus: dai capelli rossi; Aenobarbus: dalla barba color rame). Le famiglie patrizie finirono per ereditare anche il cognomen: Nerone ad esempio era un Domizio Enobarbo, il ramo dei Domizi che tipicamente avevano la barba rossa (e a sua volta tutti portavano il praenomen o di Lucio, come nel caso dell’imperatore, o di Gneo). Tuttavia in molti casi il cognomen era assente come nel caso di Gaio Mario e Marco Antonio.

Tratto da STORIE ROMANE – SITO WEB: www.storieromane.it

Nel 1130 nel Regno di Sicilia veniva istituito il primo Parlamento del mondo

Il Parlamento Siciliano viene considerato uno dei più antichi del mondo assieme a quello dell’Isola di Man, islandese e faroese, i quali però non avevano poteri deliberativi, circostanza che rende il Parlamento siciliano il primo in senso moderno, nel 1097 ci fu la prima assise a Mazara del Vallo convocata dal Gran Conte Ruggero I di Sicilia, di un parlamento inizialmente itinerante. Il parlamento siciliano era costituito da tre rami “feudale”, “ecclesiastico” e “demaniale”.

Il ramo feudale era costituito dai nobili rappresentanti di contee e baronie, il ramo ecclesiastico era formato da arcivescovi, vescovi, abati e archimandriti, mentre il ramo demaniale era costituito dai rappresentanti delle 42 città demaniali della Sicilia.

Il primo parlamento normanno non era deliberativo, ed aveva solamente una funzione consultiva e di ratifica dell’attività del sovrano, specialmente nella tassazione, nell’economia e nella gestione dei rapporti con le potenze straniere. I deputati erano scelti fra i nobili più potenti.

Fu nel 1130 con la convocazione delle Curiae generales da parte di Ruggero II a Palermo, nel Palazzo dei Normanni con la proclamazione del Regno di Sicilia che si può parlare di primo parlamento in senso moderno.

Primo cambiamento radicale si ebbe con Federico II di Svevia, che permise l’accesso parziale anche alla società civile.

Il parlamento costituzionalmente aveva il compito di eleggere il re e di svolgere anche la funzione di organo garante del corretto svolgimento della giustizia ordinaria esercitata da giustizieri, giudici, notai e dagli altri ufficiali del regno.

Nel 1410 il parlamento siciliano tenne al palazzo Corvaja di Taormina, alla presenza della regina Bianca di Navarra, una storica seduta per l’elezione del re di Sicilia in seguito alla morte di Martino II e nel 1446 ancora a Castello Ursino una seduta con Alfonso V d’Aragona, e sedute ovunque convenisse il re.

Con i successivi sovrani aragonesi la Sicilia perse la sua autonomia politica e un viceré governò l’isola, affiancato da un presidente del Regno, che presedeva le sedute del parlamento.

Fu Carlo V nel 1532 a convocare di nuovo il parlamento a Palermo nella “sala gialla” di Palazzo Reale, che continuò a riunirsi anche sotto Filippo II, conservando una sua autorevolezza nei confronti del viceré, che risiedeva anch’esso al palazzo Reale di Palermo.

Nel 1637 il Presidente del Regno Luigi Moncada, Duca di Montalto, fece affrescare da artisti come Giuseppe Costantino, Pietro Novelli e Gerardo Astorino, la sala Duca di Montalto, antico deposito delle munizioni, trasformandolo in sala delle udienze estive del Parlamento

A Palermo, il 19 luglio 1812, il Parlamento siciliano, riunito in seduta straordinaria, promulgò la costituzione siciliana del 1812, decretò l’abolizione della feudalità in Sicilia ed approvò una radicale riforma degli apparati statali. La Costituzione prevedeva un parlamento bicamerale, formato da una Camera dei Comuni, composta da rappresentanti del popolo, con carica elettiva, e una Camera dei Pari, costituita da ecclesiastici, militari ed aristocratici con carica vitalizia e di nomina regia. Le due camere, convocate dal sovrano almeno una volta l’anno, detenevano il potere legislativo, ma il re deteneva potere di veto sulle leggi del parlamento. Il potere esecutivo era affidato al sovrano; mentre il potere giudiziario era detenuto da giudici formalmente indipendenti, ma, in realtà, sottoposti alle decisioni della corona.

Con il trattato di Vienna del 1815 Ferdinando IV tornò a Napoli, abrogando di fatto la costituzione e nel dicembre 1816 riunì i due regni, anche formalmente, nel regno delle Due Sicilie, proclamandosi Ferdinando I delle Due Sicilie, sopprimendo così di fatto costituzione e parlamento siciliano. Con i Borboni la Sicilia così si ritrovò governata da Napoli e l’istituzione del parlamento riebbe con i moti del giugno 1820 quando fu riaperto il parlamento, ripristinata la costituzione siciliana del 1812 e venne proclamato un governo che durò pochi mesi, fino a quando fu inviato dal neo parlamento napoletano un esercito che riconquistò l’isola.

Fu soprattutto nella rivoluzione del 1848, che riacquistò la sua centralità. A Palermo infatti, il 25 marzo dello stesso anno, si riuniva il “Parlamento generale di Sicilia” nella chiesa di San Domenico, con un governo rivoluzionario composto da un presidente ed i ministri eleggibili dallo stesso presidente. Vincenzo Fardella di Torrearsa fu eletto presidente del parlamento e Ruggero Settimo capo del governo. Si dichiarò decaduta la dinastia borbonica, proclamato il Regno di Sicilia come monarchia costituzionale, e si offrì il trono vacante di Sicilia al Duca di Genova Alberto Amedeo di Savoia, figlio secondogenito di Carlo Alberto di Savoia, che non accettò. Il 10 luglio il parlamento decretò una nuova costituzione, sopprimendo anche la Camera dei Pari del Regno di Sicilia.

La vita del Parlamento del 1848-49 durò 15 mesi, mentre con il cosiddetto “decreto di Gaeta” del 28 febbraio 1849 Ferdinando II di Borbone iniziò a riprendere possesso della Sicilia, e l’assise si sciolse il 14 maggio 1849. La ricostituzione del Parlamento Siciliano si ebbe con la fine del secondo conflitto mondiale, quando, per soffocare la forte espansione dell’Indipendentismo Siciliano sul territorio, fu insediata nel febbraio 1945 la Consulta regionale siciliana che elaborò uno statuto speciale, promulgato dal Re Umberto II con R.D. del 15 maggio 1946 che accetto lo Statuto Siciliano.

Rinacque così, dopo le elezioni regionali del 30 aprile 1947, il 25 maggio 1947, un Parlamento Siciliano declassato come “Assemblea Regionale Siciliana” ma che ci poneva e ci pone come forma giuridica uno Stato Federato allo Stato centrale italiano.

Ir Arriba