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October 2017

Rosatellum 2.0: non possiamo essere d’accordo

Rosatellum 2.0 o Rosatellum bis, questo il nome della nuova legge elettorale, e già dal nome “partiamo male” perché si è dato ad una storica riforma costituzionale un nome da “presa in giro”. Ma questa non è l’unica ed esclusiva ragione per cui “partiamo male”, ce n’è una ancor più grave, quella che ci obbliga ad uscire allo scoperto e protestare, ed è che con due emendamenti si è modificata la legge elettorale per gli italiani all’estero. In sintesi  per l’ennesima volta, siamo stati considerati cittadini di Serie B.

Il primo emendamento prevede che anche gli italiani residenti in Italia possano candidarsi nella Circoscrizione Estero, precisando però che resta chiusa per gli italiani all’estero la possibilità di candidarsi in un collegio elettorale italiano. Non c’è quindi reciprocità. L’altro emendamento stabilisce  che chi vuole candidarsi non deve aver ricoperto incarichi pubblici nel paese di residenza durante i cinque anni anteriori alle elezioni.

Di fronte a questi cambiamenti mi domando: perché un italiano residente in Italia può presentarsi a elezioni in una circoscrizione estera e un iscritto all’AIRE non può essere candidato in Italia, per esempio a Cosenza? L’approvazione di queste modifiche di legge ha per noi un gusto molto amaro poiché ci riconferma che noi italiani all’estero non contiamo per il nostro paese e  non siamo  rispettati. La mancanza di reciprocità è grave. Oltre a farci dubitare che la legge approvata sia stata disegnata su misura di qualcuno, i partiti politici tradizionali, non ci sembra giusto che un cittadino italiano residente in Italia possa essere candidato in una circoscrizione estera. 

Crediamo che la modifica sia stata introdotta per rendere possibile che alcuni parlamentari, residenti in Italia, possano presentarsi come candidati nelle circoscrizioni estere. Se è vero, è grave, e ci duole la chiara mancanza di reciprocità di diritti tra gli italiani residenti in patria e quelli residenti all’estero, il fatto che continuiamo a contare molto poco per la nostra Italia. Se sono iscritto all’AIRE non posso essere un candidato in Italia, ma se sono un cittadino italiano residente in Italia, posso essere candidato a Buenos Aires. Vi pare giusto? A noi dell’USEI no, anche perchè si cambia, direi stravolge la legge Tremaglia, che sanciva e affermava, dopo un secolo di lotte di milioni di italiani all’estero, che chi risiede fuori dall’Italia ha diritto di votare un “candidato  residente all’estero”.

Non vogliamo polemiche, siamo un partito di proposte, ma su questo aspetto abbiamo l’obbligo di esprimere il nostro fermo NO al Rosatellum 2.0

Eugenio Sangregorio

Un nuovo articolo su Cristoforo Colombo per curare le mie ferite

Mi hanno detto che il modo giusto di presentarmi sarebbe stato quello di scrivere un articolo. Dopo averci pensato su, ho deciso di tornare a scrivere sul monumento a Cristoforo Colombo, l’argomento che per me è stato tanto doloroso da indurmi a smetterla di scrivere e a cambiare lavoro, presa da una rabbia cieca, che è durata alcuni anni. Ricomincio quindi da dove avevo smesso per riannodare la mia attività di  cronista.

Nata in Romagna e cresciuta a Genova, dove Colombo è considerato con affetto un familiare oltre che un grande del passato, non posso assolutamente comprendere la teoria americana per cui Colombo sarebbe responsabile dei massacri degli indigeni per aver aperto la porta ai colonizzatori.

Noi italiani consideriamo Colombo un uomo geniale del Rinascimento, un ammiraglio che ha avuto il coraggio di navigare verso ovest cercando di andare in India e in Cina, convinto che la Terra fosse rotonda, in un’epoca in cui si credeva che fosse piatta. Così nel 1492, per caso ha scoperto l’America che si trovava nel cammino verso l’Oriente.  In Spagna per il 12 ottobre si celebra la scoperta dell’America e in Italia la ricorrenza è molto sentita.

Comprendo di aver scritto quello che pensano gli europei, cioè di aver seguito una teoria eurocentrica e capisco che per gli americani la visione su Colombo deve essere molto diversa, tanto che in tutti i paesi americani se la sono presa e se la stanno prendendo con le statue del grande navigatore. È successo in Venezuela, in altri paesi sudamericani, in Canada e negli USA, dove l’ammiraglio genovese è considerato un genocida anche se non sanno esattamente chi fosse, dove sia nato e che storia abbia avuto e tutti credono che fosse spagnolo. Ora che i popoli nativi pensino in questo modo va e passa ma se lo fanno filosofi, storici e intellettuali vari di origine europea, penso che siano più papisti del Papa.

A Buenos Aires, dopo una lotta estenuante del Comitato “Colòn en su lugar”, nato nel 2013 per evitare che il monumento fosse smembrato e spostato, il Potere Esecutivo Nazionale argentino ha ordinato di dividere l’opera d’arte in più di 130 pezzi, che nel 2015 sono stati portati sul lungo fiume Nord “Costa nera Norte”. Nonostante la lotta del Comitato, che si è mosso su tutti i fronti, da quello legale alle lettere al Papa e al Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, non si è potuto fare niente. Ho imparato quindi che ogni lotta è inutile quando ci si batte contro i poteri forti e gli affari milionari, altri per fortuna hanno preso la vicenda in un altro modo e stanno continuato la battaglia.

Per gli italiani non si tratta solo di un problema di rispetto dell’arte ma di una vicenda dal valore sentimentale. Il monumento era stato donato, infatti, dalla collettività italiana e posto nel parco omonimo, davanti alla Casa Rosada, nel 1921, con una cerimonia importante presieduta dall’allora presidente della Repubblica Argentina, Hipòlito Yrigoyen. Tra i donatori c’era Antonio Devoto, un uomo che era sempre in primo piano quando si trattava d’italianità. L’opera d’arte aveva un significato che andava molto oltre la persona cui era stato dedicato.

Per noi italiani, raffigurava l’immigrante italiano, cioè proprio noi, infatti, anche Colombo come noi migranti era arrivato in mare e si era lasciato alle spalle, la patria e la famiglia. Il monumento esprimeva quindi la nostra memoria nostalgica e ai suoi piedi la collettività italiana realizzava le sue cerimonie identitarie. La storia è passata, non serve a niente rivederla sotto un’ottica diversa, i simboli sono tali proprio per il significato che assumono secondo chi li considera.

Cadono queste teorie americane basate sul rancore razziale, proprio per superarlo nel rispetto di tutti non sarebbe meglio lasciar perdere la guerra delle statue e dare agli indigeni una ricompensa storica, come  per esempio le terre che stanno reclamando? Sicuramente i popoli originari sarebbero d’accordo, non avrebbero niente da dire e sarebbe possibile convivere nel rispetto di tutti.

Edda Cinarelli

Divertiamoci tutti a Halloween: festa celtica ma anche in Sicilia…

La sera del 31 ottobre, a Buenos Aires, bambini e adulti si riuniscono nei bar, saloni, case per festeggiare con molta allegria la notte di Halloween. Una festa probabilmente di origine celtica,  all’insegna del macabro, della paura della morte, che diventa sempre più popolare in Argentina e in molti altri paesi del mondo.

La zucca è uno dei simboli principali della festa, l’arancione, il viola e il nero, i suoi colori. La zucca una volta era scavata a mano, svuotata di polpa e semi, e sulla superficie erano intagliati i tratti di un volto malefico e dal ghigno beffardo. Al suo interno, si riponeva una candela che, accesa, consentiva di vedere i tratti intagliati anche in pieno buio, per le strade, quando non c’era luce elettrica e spaventare i  malcapitati passanti.

Negli ultimi anni oltre a portare una zucca, che ora è di plastica, ci si maschera da vampiri, fantasmi, morti viventi, lupi mannari, scheletri, streghe, super eroi e da alieni. Era sostanzialmente un modo scaramantico di allontanare la paura della morte, e i dubbi sulla vita nell’aldilà con il divertimento. Una volta negli Stati Uniti, gruppi di bambini, in maschera, suonavano alle case dei vicini per chiedere “un dolcetto o uno scherzetto” intendendo come scherzetto una manciata di spiccioli.

La festa di Halloween probabilmente è di origine celta, ed è arrivata fino a noi dagli USA, ma anche i romani festeggiavano i morti, anche se con un altro nome, Parentalia, e in un’altra data. In Sicilia ancora oggi, la notte tra l’1 e il 2 novembre si celebra la festa dei morti. Anche nella nostra isola, così come succede negli USA, i bambini suonano alle case dei vicini per chiedere o un dolcetto o uno scherzetto, e i genitori comprano per i loro figli: giocattoli e doni vari da lasciare accanto al letto, come succede esattamente a Natale. Il giorno seguente, le famiglie patrizie vanno in cimitero, dove fanno la merenda vicino al Pantheon degli antenati defunti.  C’è da dire che mentre Halloween sta crescendo grazie al consumismo, alle fabbriche che producono zucche di plastica, costumi e oggetti da donare, e grazie anche alla crescente diffusione della cultura nord americana, la festa dei morti in Sicilia si sta perdendo.

La festa di Halloween è rifiutata da alcune confessioni cristiane che la ritengono strettamente legata alla magia e alla stregoneria, e in Italia è superata in popolarità dal Carnevale.

Edda Cinarelli

Memorie di fine Regno: l’eccidio di Cefalonia

Strano destino quello del martirio della Divisione Acqui, e del suo comandante, generale Antonio Gandin. Dire in sede storica una parola nuova su questa tragedia, consumata fra il 14 e il 25 settembre del 1943 e culminata con le fucilazioni di massa dei soldati e degli ufficiali, è quasi impossibile data la vasta letteratura; ma è altrettanto impossibile chiuderla per sempre nel cassetto dei ricordi, talmente tante sono le contraddizioni, se non le vere e proprie assurdità, delle ricostruzioni inerenti a questo gravissimo evento della seconda guerra mondiale.

Neanche sul numero di vittime si è d’ accordo: una prima stima nel ’47, voluta da Ferruccio Parri, fu di 9000 caduti. Il piú recente saggio sull’ argomento dice non più di 2500. Una terza stima si pone nel mezzo, circa 6000, includendovi i 1500 militari che morirono annegati per l’ affondamento di due piroscafi che li trasportavano, come prigionieri con la sigla IMI appena coniata (Internati Militari Italiani) verso i campi di lavoro in Germania.

Il massimo del pirandellismo affiora se ci si concentra sulla figura del Comandante Gardin. Decorato post mortem con la MOVM (Medaglia d’ oro), in successive ricostruzioni di sopravvissuti viene definito come traditore dell’ Italia di Badoglio (un’ Italia provvisorissima, per sorte) e dei suoi soldati. Eppure Gardin trattò la resa col ten.col. Brage, capo della guarnigione tedesca; ritenne delirante e potenzialmente omicida l’ ordine impartito dall’ Alto Comando (Marina Brindisi), secondo il quale “i tedeschi andavano ritenuti nemici” e ad essi ci si doveva opporre combattendo; aveva persino – caso senza precedenti nella storia militare – organizzato un referendum fra i soldati, per stabilire una di queste 3 opzioni: 1. continuare la guerra accanto ai tedeschi, 2. rendere le armi in cambio di un improbabilissimo rimpatrio, e 3. combattere contro i tedeschi.

Si scelse di combattere contro i tedeschi, più forse per disperazione che per ardimento: si era sparsa la voce (forse diffusa ad arte dai greci) che fosse imminente uno sbarco degli alleati. Si trattava di liberarsi di circa 1500 nemici, e poi c’ era la possibilità che unità italiane arrivassero, per evacuarli tutti.

Ma quell’ isola insanguinata, era proprio maledetta. Tutto andò storto. Gandin diresse le operazioni controvoglia, contro un avversario che ammirava. Ben presto gli Stukas presero a martellare le posizioni italiane implacabilmente. La Wehrmacht ebbe i rinforzi tanto attesi. Argostoli, sede del comandante italiano, si arrese il 25 issando una tovaglia bianca presa dalla mensa ufficiali.

Dopo di questo cominciò lo sterminio, su ordine diretto di Hitler. Solo con i sovietici, i tedeschi si erano accaniti altrettanto: e non ho mai detto nazisti; perchè a Cefalonia non c’ erano le SS o gli Einsatzgruppen famigerati del fronte orientale… No, era la Wehrmacht, l’ esercito regolare a presidiare le isole greche.

Povero Gardin, e poveri soldati. Triturati dalla storia e ricordati solo da un film abbastanza strafalcione: “Il mandolino del capitano Corelli” (mai esistito).

River Plate – Boca Juniors, passioni di folle

Le squadre di calcio River Plate e Boca suscitano amore ed entusiasmo tra i tifosi argentini e del mondo. I loro giocatori sono tanto bravi da far proclamare il derby Boca-River come uno tra i più belli, qualcuno l’ha definito addirittura: uno spettacolo di danza.

Le due squadre sono sorelle e rivali, nate nello stesso quartiere di origine genovese, più volte campionesse, vivai di talenti calcistici che poi hanno fatto fortuna in altre latitudini, in Italia come: Crespo, Veròn, Ortega, Palacios; in Spagna come Di Maria, Riquelme, in Gran Bretagna e in Cina come Tevez.

Entrambe sono nate a La Boca, culla non solo dell’arte ma anche dello sport. Il Club River Plate è stato fondato il 25 maggio 1901 dalla fusione di due club amatoriali Santa Rosa e La Rosales. Un gruppo di 24 ragazzi si è riunito in Almirante Brown 927, dove funzionava la tipografia di Francisco Gentile, per fondare un nuovo club di calcio. La scelta del nome è stata motivo di discussione: José Corpucci ha proposto River Plate; Carlos Antelo, La Rosales; Pedro Ratto, Forward e Bernardo Messina, Juventud Boquense. Si è scelto il nome di River Plate e la istituzione si è chiamata Club Atlético River Plate. Il suo primo presidente è stato Lepoldo Bard. I colori della maglietta sono quelli originali della bandiera genovese. Con il tempo il Club si è trasferito nella zona nord della città, ha fatto costruire lo stadio Monumental, il più grande dell’Argentina, ed ha dato il nome al quartiere dove si trova, di gente benestante. Ecco il soprannome di “millonario” dovuto anche al fatto della gran quantità di capionati vinti e le cifre stratosferiche in cui venivano piazzati i suoi calciatori venduti in Europa.

Il Club Atletico Boca Juniors è nato il 3 aprile 1905 da un gruppo di adolescenti italo-argentini. I fondatori erano sei, quattro di chiara origine genovese (da qui il soprannome Xeneises): Esteban Baglietto, Alfredo Scarpatti, Santiago Pedro Sana; due, i fratelli Juan e Teodoro Farenga, di origine lucana. Inizialmente si riunivano nella casa di Baglietto, sita al numero 1232 di Ministro Brin, ma poco dopo hanno dovuto cercare un altro punto di ritrovo perché il padrone di casa, alquanto scocciato dal rumore che facevano, gli ha dato un calcio nel sedere. Hanno scelto allora una panchina di Plaza Solís. Come presidente avevano eletto Baglietto, ma poi la scelta è ricaduta su Luis Cerezo poiché Esteban era minorenne. I colori della maglietta sono quelli della bandiera svedese presi dalla prima nave passata nel Riachuelo dopo la fondazione. L’attuale stadio di Boca si chiama la Bombonera, proprio perché irrompe stretto uno spazio urbano ridotto e circondato da casette colorate nelle viuzze del quartiere, come una bomboniera che deve contenere decine di migliaia di spettatori.

Com’era logico visti i loro inizi, le due squadre si amano e si odiano. Entrambe hanno vinto vari campionati argentini, Boca non è mai sceso in serie B, River una volta. E’ una storia che negli scontri diretti tra le due squadre vede i gialloblù vantaggiati con 133 a 119 vittorie e 115 pareggi, mentre che in quanto ai campionati vinti la squadra del River si porta avanti con 58 campionati ufficiali vinti contro i 52 del Boca, che però si riscatta con 66 a 61 considerati i campionati anteriori al 1931, anno fino al quale il calcio solo si giocava in forma dilettantistica. La netta supremazia di River nei campionati e coppe locali si ribalta sulla scena internazionale tanto continentali ed intercontinentali con 18 titoli del Boca contro 10 del River.

Le partite Boca – River si chiamano super classico, sono molto attese soprattutto dalle tifoserie delle due squadre. Suscitano un’atmosfera da delirio, ricreano la misticità festosa. Il 5 novembre ci sarà una nuova partita Boca – River, si svolgerà nel Monumental ed i tifosi hanno già il cuore in gola, il calcio è vissuto in Argentina come una grande passione.

La Boca, rione genovese di Buenos Aires

La Boca o Piccola Italia, Piccola Genova, Capitale di Buenos Aires,  come la si è chiamata, è un quartiere vivace, simpatico, colorato, simbolo dell’immigrazione genovese a Buenos Aires. Si trova alla bocca del Riachuelo, esattamente il punto in cui questo fiume sfocia nel Rìo de La Plata, da lì il nome Boca, e in cui c’era e c’è il primo porto della città. E’ uno dei rioni più interessanti e belli di Buenos Aires, probabilmente perché ancora sprigiona dalle sue strade, dalle sue case il suo passato, italiano e genovese e l’energia con cui questi pionieri vi hanno vissuto.

La sua storia è effervescente e le bollicine sono rimaste ancora nell’aria. Il quartiere colpisce per le sue case di legno o di lamiera, colorate con colori sgargianti, le pitture che restavano ai costruttori di barche dopo averle dipinte. L’abitudine di colorare le case con colori forti: rosso, giallo, verde, è nata però relativamente poco tempo fa, da Quinquela Martin, il pittore più famoso della scuola boquense, che si caratterizzava proprio per dipingere i suoi quadri con colori accesi stesi con spatole e pennelli grossi. Un artista, della prima metà del Millenovecento, che diceva: il colore è vita e aveva raggiunto una grande fama, tanto da essere ricevuto dalle personalità più in vista del suo tempo.

I primi abitanti del rione, quelli dell’epoca coloniale erano schiavi di colore. Nel 1817 l’ inglese Diego Brittain diventò proprietario di quelle terre, che dopo la sua morte furono vendute ed affittate dando origine al fiorente villaggio e alla società dinamica e solidale che lo caratterizzava. Da Bernardino Rivadavia, primo presidente del paese, 8 febbraio 1826 – 7 luglio 1827,  promotore dell’immigrazione, si è popolato soprattutto di genovesi, intesi come persone provenienti dal territorio dell’antica Repubblica di Genova, emigrati perché si opponevano all’annessione della Repubblica di Genova al Regno di Sardegna. Poi proprio questi hanno chiamato i loro parenti, amici e le donne con cui sposarsi. Loro si occupavano soprattutto di cantieri navali e di commercio lungo il fiume.  Dal 1831-32, reduci dei moti rivoluzionari sono venuti anche mazziniani e garibaldini, così come poco dopo sono arrivati anche piemontesi, che però si sono sistemati nelle Province di Còrdoba e di Santa Fe.

Dal 1870 al 1910 si è prodotta un’alluvione immigratoria, sono immigrati veneti, siciliani, pugliesi, alcuni si sistemavano a La Boca, dove, per poter adattarsi e comunicare con gli altri assorbivano la cultura genovese e imparavano la lingua del quartiere. Ancora ora ci sono a La Boca alcune persone che parlano in dialetto, sicuramente molte più che a Genova e gli abitanti della Boca (e i tifosi della sua squadra di calcio) si definiscono ancora come Xeneizes, come si chiamano i genovesi nel dialetto della Superba. Molti di loro erano anarchici e socialisti, si riunivano in associazioni di mutuo soccorso e in alcune chiaramente politiche, fondavano biblioteche, frequentavano bar ed avevano un’intensa vita sociale. Li caratterizzava il desiderio della conquista dei diritti della classe operaia, quello di completare l’unificazione d’Italia e uno spiccato anticlericalismo. La festa principale della comunità italiana fino al 1930, era il XX Settembre, data della presa di Roma ed anche quella del Carnevale.

La Boca era quindi un quartiere brulicante di cultura genovese, un po’ ribelle tanto che nel 1876 fu fondato dagli immigrati genovesi un movimento separatista di carattere politico-elettorale per ottenere l’autonomia amministrativa sulla gestione locale del quartiere e del porto; a questi si aggiunsero altri, più drastici, che proposero di puntare sull’indipendenza territoriale; nel 1882 gli abitanti della Boca si autoproclamarono Repùblica de la Boca[1], issando la bandiera di Genova e costituendo un territorio indipendente dall’Argentina: firmarono un atto formale che inviarono al Re d’Italia Umberto I di Savoia, informandolo della costituzione della República Independiente de La Boca; il generale Julio Argentino Roca assieme al presidente della Repubblica, dovettero intervenire personalmente a parlamentare con i rivoltosi per costringerli ad ammainare la bandiera di Genova e risolvere il pittoresco conflitto. Nel 1895 la Boca contava su una popolazione di circa 38.000 abitanti, di cui solo 2.500 immigranti spagnoli.

Ancora oggi si celebra l’anniversario della proclamazione della Repubblica de la Boca. I festeggiamenti sono organizzati dalla Fondazione Museo Storico de La Boca, primo museo dell’immigrazione ligure nel mondo.

Nel 1877 sono arrivati a La Boca i Salesiani ed hanno iniziato la costruzione della parrocchia San Giovanni Evangelista, terminata nel 1886. L’altare In questa Chiesa è dedicato alla Madonna della Guardia, una Vergine che si venera a Genova.

La Boca è stata culla d’arte e di sport, abitata da musicisti come Juan De Dios Filiberto, autore della musica di Caminito, da pittori, basti ricordare quelli della Escuela Boquense. Oggi, passati i fasti di un tempo, il rione emana la sua storia. Molti dei suoi abitanti sono ancora di lontana origine genovese, orgogliosi della loro cultura, si riuniscono nei bar storici che restano, mangiano la pizza da Banchero, si oppongono alle decisioni del governo di cambiare l’aspetto del quartiere, continuano ad essere un po’ ribelli. Ci sono ancora i socialisti e i massoni, bisogna solo saperli riconoscere.

Edda Cinarelli

Festa dell’immigrante di Montevideo

“Nel fine settimana del 25 e 26 di novembre si svolgerà una nuova Fiesta de las Migraciones a Montevideo organizzata dalla Red de Apoyo al Migrante e dal Museo de las Migraciones (Mumi). Giunto alla sua ottava edizione, questo evento è ormai diventato un tradizionale palcoscenico per tutte le collettività di immigrati in Uruguay crescendo di volta in volta. Lo scorso anno, solo per citare l’ultimo dato, circa 10mila sono stati i partecipanti secondo le stime ufficiali. Anche per questa edizione ci sarà una folta partecipazione che coinvolgerà tanti paesi, oltre una trentina, arricchita da nuove presenze. E l’Italia? Per il momento è confermata solo la presenza del gruppo di balli tipici Stelle Campane che farà il suo spettacolo sul palco come in ogni appuntamento”. È quanto si legge su “Gente d’Italia”, quotidiano diretto a Montevideo da Mimmo Porpiglia.

“La presenza italiana, a dire il vero, è crollata vertiginosamente a partire dal 2015. Sembrano lontanissimi i tempi del 2013 quando l’Italia fu la vera protagonista della festa grazie ad una grandissima partecipazione con 11 gruppi divisi tra stands e spettacoli culturali.

“Purtroppo anche quest’anno ci sarà molto poco d’Italia. O almeno questa è la situazione fino ad ora che speriamo di poter modificare”. Parla con una certa delusione Ana Melazzi, lei stessa italouruguaiana, architetto tra gli organizzatori della festa che spera in un esito diverso: “Ci piacerebbe vedere qualcosa in più, l’Italia è un componente fondamentale in questo panorama multiculturale. Ricordo che nel 2013 ci fu una vera e propria esplosione. Sarebbe davvero un vero peccato poter avere solo Stelle Campane”.

La Fiesta de las Migraciones sta crescendo anno dopo anno. Come spiega l’organizzatrice “il gran salto di qualità c’è stato a partire dal 2015 con un grosso aumento di visite”. Per questo fine novembre “ci aspettiamo ancora di più dato che faremo una grande campagna di diffusione”. La Melazzi specifica di aver provato a mettersi in contatto senza successo con varie associazioni e a breve inoltrerà un invito formale al Comites, il Comitato degli Italiani all’Estero di Montevideo: “Da parte nostra c’è la massima disponibilità. L’invito è sempre aperto”.

Nonostante la tendenza negativa degli ultimi anni con poca presenza italiana, la Melazzi lancia in ogni caso un appello agli interessati a partecipare dato che “l’idea di fondo della festa è quella di includere sempre il più ampio numero possibile di collettività”.

Anche dal punto di vista istituzionale sembra esserci una certa immobilità con l’Italia. Giusto per fare un esempio, lo scorso anno fu firmato un protocollo d’intesa tra il Mumi e il museo dell’emigrazione lucana: a cosa servono iniziative del genere se poi non c’è una reale collaborazione nelle iniziative importanti? La Fiesta de las Migraciones rappresenta una vetrina di grande visibilità nella società uruguaiana. Farsi sfuggire per l’ennesima volta l’occasione di partecipare vorrebbe dire sprecare una grossa opportunità. Lo scorso anno il problema, secondo il precedente esecutivo del Comites, era da attribuirsi alla Giornata degli Italiani svoltasi ben 3 settimane dopo la Fiesta de las Migraciones”. (aise) 

In Liguria omaggio ai nostri emigrati in Argentina

Tutto cominciò con un’intervista per L’ITALIANO di Gian Luigi Ferretti, fondatore ed editore del quotidiano, all’Ambasciatore a Roma della Repubblica Argentina, Tomas Ferrarri. In quell’occasione il diplomatico disse che suo bisnonno Domenico Ferrari era di Corvara, un paese della Val di Vara in provincia de La Spezia.

E Ferretti raccontò di essere rimasto senza fiato per la sorpresa perchè: “Si dà il caso che Corvara sia ad un paio di chilometri da Pignone, da cui proviene il direttore di questo giornale, Tullio Zembo, e ad una ventina di chilometri da Carrodano, dove sono nato io”.

Sorpreso anch’io, da Buenos Aires inviai l’articolo al mio amico Mauro Figoli, che contattò la vicesindaco Brunella Corradi e il Sindaco Massimo Rossi del Comune di Beverino, di cui Corvara oggi è frazione. Con grande entusiasmo gli amministratori comunali decisero di conferire all’Ambasciatore la cittadinanza onoraria e misero in moto la procedura.

Fu così che a marzo di quest’anno l’Ambasciatore Ferrari arrivò da Roma con la moglie Nhu Anh Nguyen per diventare ufficialmente cittadino onorario di Beverino alla presenza di tutte le autorità della zona, dal Prefetto al Vescovo, al Questore, ai vertici provinciali di Carabinieri e Guardia di Finanza al Consiglio Comunale straordinario.

L’alto diplomatico fu onorato e raccontò commosso di quando, bambino, era seduto col nonno sui gradini davanti alla casa di Jaregui, il paesino vicino a Lujan circondato dalla sterminata pampa argentina e il nonno Domenico gli raccontava di suo padre, che si chiamava anch’egli Domenico, arrivato in Argentina da un paese ancora più piccolo di Jaregui che si chiamava Corvara ed era lontano lontano, in Italia. Ah, l’Italia – sospirava il nonno e guardava l’orizzonte dove terra e cielo si confondevano.

Ed ecco l’Ambasciatore ha voluto donare alla città una targa che recita: “L’Ambasciatore della Repubblica Argentina in Italia Tomas Ferrari, oriundo di Corvara, in omaggio a tutti gli emigrati italiani in Argentina”. E ha voluto ritornare di persona, portando con sè la moglie ed anche il fratello che vive in Argentina per scoprirla ufficialmente.

Naturalmente il Sindaco Rossi ne è stato felicissimo ed ha organizzato una bella cerimonia con bandiere italiane ed argentine, inni nazionali, autorità, bambini della scuola, reduci alpini. Corvara si è vestita da festa per accogliere il concittadino illustre, nipote di Domenico Ferrari.

Insieme, Ambasciatore e sindaco, hanno piantato un albero d’ulivo per simboleggiare la continuità valoriale tra il passato ed un futuro di pace e fratellanza. Ma il clou della manifestazione è stato lo scoprimento della targa con i discorsi di Ferrari e di Rossi. Entrambi visibilmente commossi, hanno sottolineato l’importanza delle radici, dei valori trasmessi dei legami profondi tra le generazioni, le famiglie, i popoli, le culture.

Tullio Zemo (pubblicato su Italia Chiama Italia il 23.10.2017)

Tango e amore, il libro su Caminito

L’amore al centro del libro, di Oscar Francisco Vilche, presentato il 12 settembre 2013 nel Congreso de la Nación sul famoso tango Caminito, la cui canzone è stata composta nel 1926 da Cabino Coria Peñaloza con musica di Juan de Dios Filiberto, musicista del rione de la Boca.

Al contrario di quello che si può pensare poiché a la Boca, rione di Buenos Aires, c’è una strada omonima, il nome del famoso tango è stato ispirato da un sentiero di Olta – Loma Blanca – che si trova a circa Km.170 dalla capitale della Rioja, dove viveva Cabino Coria Peñaloza. Il poeta si era innamorato di una giovane del luogo, colta e raffinata, che sapeva suonare bene il pianoforte e incontrava di nascosto in questo sentiero distante dal centro abitato per evitare chiacchiere. Peñaloza, tornato a Buenos Aires, dopo un tempo spinto dal suo desiderio di amore è ritornato a Loma Blanca per ritrovarlo, ma la giovane non c’era più. Non si sa dove sia andata, forse la famiglia l’ha allontanata proprio perché venuta a conoscenza dell’amore clandestino, forse è andata sposa. Allora il poeta spinto dall’amarezza , quasi al bordo del suicidio, ha scritto la famosa canzone. E’ stato solo molti anni dopo, nel 1950, che per ragioni turistiche il nome del famoso tango è stato dato alla strada de la Boca.

Il tango è stato inciso inizialmente da Carlos Gardel, però ha raggiunto fama internazionale quando è stato interpretato da Ignacio Corsini, italiano, “tano” di Buenos Aires. E dopo La Cumparsita e El choclo è il terzo tango più famoso del mondo. E’ stato interpretato da tanti cantanti, tra gli ultimi ci sono i Tre tenori: Josè Carreras, Placido Domingo e Luciano Pavarotti.

Nei versi che seguono: Tristezza e la richiesta al sentiero di non rivelare che il poeta aveva pianto per amore.

Desde que se fue
triste vivo yo,
caminito amigo,
yo también me voy.
…no le digas si vuelve a pasar
que mi llanto tu suelo regó.

Edda Cinarelli

Cristi processionali proposti come patrimonio Unesco

È stato approvato all’unanimità la mattina del mercoledì 27 settembre nel Consiglio regionale ligure l’ordine del giorno firmato originariamente da Angelo Vaccarezza, Capogruppo di Forza Italia in Regione Liguria e dal collega Claudio Muzio, a cui si sono aggiunti i colleghi di Lega Nord Liguria, Gruppo Toti e Partito Democratico, in cui si chiede al presidente della Regione e alla Giunta di farsi parte attiva per sostenere il Priorato delle Confraternite nell’iter per il riconoscimento dei Cristi Processionali come patrimonio UNESCO.

“È una tradizione secolare che viene tramandata di famiglia in famiglia all’ombra di quelle che possono essere considerate vere e proprie opere di artigianato locale – dichiara Vaccarezza a margine del voto – si rafforzano i legami fra gli abitanti delle varie comunità, non solo della nostra terra, ma anche con i paesi del vicino Piemonte”.

“Sono simbolo di Fede, ma anche di appartenenza al territorio; rappresentano una freccia importante nell’arco del nostro sistema turistico, per tutti coloro che vogliono scoprire la storia di quel gioiello chiamato Liguria”.

“Per queste ragioni ho ritenuto molto importante sostenere le Confraternite in questo cammino, poiché i Cristi processionali fanno parte delle eccellenze del nostro territorio, eccellenze delle quali possiamo essere orgogliosi» conclude il Presidente del Gruppo Consiliare Forza Italia” conclude Vaccarezza.

In Argentina ci sono tre squadre di portatori di Cristo, una a Buenos Aires, una ad Arroyo Seco, un’altra a Rosario. Sono aderite alle Confraternite dei Portatori di Cristo, con sede a Genova e sono le uniche in Argentina. I crocifissi che sfilano a Buenos Aires sono quelli della Chiesa Mater Misericordiae, Cristo arrivato nel 1860 donato ai savonesi di Buenos Aires dall’allora duchessa di Galliera (GE) del casato dei Savoia; e quello della chiesa della Virgen del Transito e Madonna di Montallegro. Fatto costruire da artigiani trentini da genovesi dell’Abasto e venuto nel 1948. Nel 2004 nel capoluogo ligure c’è stato un raduno dei Portatori di Cristo. Per i membri della nostra squadra è stata una splendida occasione per tornare alle origini e incontrare i loro pari di tutto il mondo. Il decano e addestratore della squadra di Buenos Aires è Alejandro Rossi.

Edda Cinarelli

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