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May 2019

Lactalis compra Nuova Castelli, il parmigiano reggiano diventa francese

I francesi di Lactalis conquistano Nuova Castelli, principale esportatore italiano di parmigiano reggiano. Il colosso francese ha sottoscritto «un accordo per l’acquisizione dell’intero capitale» di Nuova Castelli, l’80% del quale era detenuto dal fondo inglese Chartherhouse Capital Partner. Con questa operazione, si legge in una nota, Lactalis «rafforza la sua leadership nella distribuzione dei formaggi italiani DOP sui mercati internazionali, dove è già protagonista con una presenza commerciale e distributiva in oltre 140 paesi».

Nuova Castelli – produttrice e distributrice di numerosi prodotti della tradizione casearia italiana come parmigiano reggiano, la mozzarella di bufala campana e il gorgonzola – opera con 13 siti di produzione in Italia e 3 all’estero e nel 2018 ha realizzato un fatturato di 460 milioni di euro, dei quali circa il 70% grazie all’esportazione. I brand più conosciuti all’interno del portfolio sono Castelli, Mandara e Alival. Lactalis, si legge nella nota, accresce la sua posizione in Italia con una organizzazione di oltre 5.500 collaboratori e 29 siti di produzione. L’acquisizione è soggetta alle approvazioni delle competenti Autorità regolamentari.

Dal mese prossimo a Buenos Aires gli appuntamenti per la ricostruzione della cittadinanza si prenderanno via WhatsApp

Il 15 maggio nel sito web del Consolato Generale d’Italia in Buenos Aires è stata pubblicata la notizia che dal prossimo mese di giugno, in data che sarà comunicata quanto prima, sarà avviata, in via sperimentale un nuovo modo di prenotazione degli appuntamenti per la RICOSTRUZIONE della cittadinanza. Il nuovo sistema prevede l’uso dell’applicativo di videochiamata “WhatsApp”. Saranno presto resi noti i due numeri telefonici di riferimento, abilitati a tale nuovo servizio.

L’interessato dovrà fare la chiamata personalmente: il servizio è personale e intrasferibile a familiari o terzi. Al momento della videochiamata, requisiti indispensabili per procedere con la prenotazione saranno:

1) Il possesso di un DNI aggiornato che dimostri la residenza nella circoscrizione consolare da almeno sei mesi, e che consenta l’identificazione dell’utente chiamante;

2) Un profilo di Prenota Online già creato e valido. L’assenza di uno di questi requisiti renderà impossibile procedere con la prenotazione.

Gli appuntamenti verranno assegnati unicamente nella fascia oraria giornaliera di operatività del whatsapp, che verrà presto comunicata. In nessun caso, nel corso della videochiamata l’operatore potrà rispondere a richieste di
chiarimento o dubbi sul procedimento e sulla documentazione necessaria. Si precisa che allo stesso numero telefonico potrà essere abbinato un unico turno di prenotazione: in altre parole lo stesso numero telefonico potrà essere utilizzato per un’unica prenotazione e un’unica volta.

Per i turni di cittadinanza riservato ai “Figli diretti Maggiorenni” di cittadini italiani, continuerà a essere operativo il sistema Prenota Online, con le norme e tempistiche già note.

E’ chiaro che l’adozione di questo nuovo procedimento per l’ottenimento di un appuntamento per il riconoscimento della cittadinanza è il colpo di grazia che il Consolato Generale di Buenos Aires sferra alla mafia degli appuntamenti nella guerra che i due contendenti, mafia e rappresentanti dello Stato Italiano a Buenos Aires, hanno intrapreso già da abbastanza tempo. La prima per continuare a lavorare e fare sempre più cassa i secondi per riportare la situazione nella legalità. Lo scontro ha avuto vari round, con risposte sempre più dure, e in escalation da entrambe le parti. Una delle decisioni prese alcuni mesi fa dal Consolato Generale è stata quella di sospendere gli appuntamenti presi dallo stesso computer o cellulare, riconoscibili per il numero IP, infatti, ogni computer o mobile ce ne ha uno specifico facilmente identificabile. A questa stancata la mafia ha risposto facendosi prestare i cellulari dai loro clienti e agendo da strumenti sempre diversi e non riconducibili a una stessa fonte. A questo punto il Consolato sferra la battaglia finale: la video conferenza individuale, nel corso della quale il richiedente appuntamento lascerà il suo numero di WhatsApp con relativa foto.

Sembra proprio il provvedimento azzeccato per risolvere il problema. Resta da vedere se in questa corsa per combattere la mafia non si continuino a limitare gli accessi ai diritti sanciti dalla Costituzione Italiana. Diritti la cui accessibilità è diventata sempre più difficile durante gli anni. Prima bisognava fare delle lunghe code per arrivare di fronte all’impiegato preposto, ma alla fine ci si arrivava e gli aspiranti utenti avevano la soddisfazione di poter interloquire con una persona di carne e ossa cui porre delle domande e ricevere delle risposte. Poi è stato introdotto il programma via online e bene o male l’accesso al diritto è diventato sempre più difficile perché non tutti hanno familiarità con la tecnologia.

Ora c’è la video conferenza, bisogna vedere se le persone anziane sapranno come gestire questo problema. L’ideale sarebbe che fossero assunti più impiegati per accompagnare i richiedenti la cittadinanza, ma questo si sa che non sarà possibile visto che il governo italiano non vuole sapere quasi nulla degli italiani nel mondo, probabilmente perché non ci considera una riserva ma un peso. A ogni modo chapeau al Console Generale e a tutti i suoi collaboratori per la volontà manifestata di difendere l’accessibilità a un diritto sancito dalla Costituzione italiana, per cui la cittadinanza è Ius Sanguinis.

Edda Cinarelli

Gherardo Colombo: «Sulla corruzione abbiamo perso, ora tocca ai ragazzi»

È l’ex magistrato di Mani Pulite, il giudice della scoperta della P2 e del delitto Ambrosoli, il pm dei processi Imi-Sir/Lodo Mondadori/Sme. Un uomo che ha fatto tremare i potenti. Ma il Gherardo Colombo che ti viene incontro è spiazzante. Ha appena fatto la spesa al supermercato e si presenta con tre sporte in mano. Lo si incontra spesso nel parco vicino a casa con il suo amato golden retriever Luce. Il suo tempo si divide tra gli incontri con i ragazzi delle scuole e il volontariato a San Vittore e Opera. Sposato, tre figli, un nipotino di 11 anni, Colombo si è dato un compito nella sua seconda vita. Onorare una promessa fatta nel lontano 2007 quando diede le dimissioni dalla magistratura: «Voglio invitare i giovani a riflettere sul senso della giustizia». Lo fa ormai da 12 anni.

Dottor Colombo sono passati 27 anni da Mani Pulite e in Lombardia ci ritroviamo con 90 indagati e 28 persone agli arresti. Sembra che l’unica cosa incorruttibile nel nostro Paese sia la corruzione. Eterna, senza che il tempo riesca a scalfirla. È così?
«Siamo solo agli inizi dell’inchiesta. La Costituzione garantisce la presunzione d’innocenza fino alla sentenza conclusiva. È vero, sono passati 27 anni da Mani Pulite e 14 da quando nel 2005 si sono conclusi indagini e processi. A mio parere nella competizione tra corruzione e legge ha vinto la corruzione e ha perso la legge».

Mani Pulite non è servita?
«Mani Pulite è la dimostrazione scientifica che un fenomeno così diffuso e capillare com’era e com’è la corruzione in Italia non può essere marginalizzato dallo strumento penale. La differenza sta nel fatto che allora c’era un vero e proprio sistema collegato al finanziamento dei partiti con regole precise, rigorose e molto osservate. Oggi la corruzione è più anarchica e meno regolamentata. Il collegamento al finanziamento dei partiti è occasionale e meno visibile. Da noi esiste un principio di carattere generale per cui la regola prima è per molti la furbizia e di conseguenza, ogni volta che si può, la corruzione viene messa in pratica».

Tratteggia la corruzione come connaturata alla natura umana. È questo che ha scoperto nei suoi lunghi anni in magistratura?
«No. Non è una questione genetica, non c’entra il Dna. È una questione di cultura. Nonostante siano passati 71 anni dall’entrata in vigore della Costituzione continuiamo a pensare che lo stare insieme sia regolato dai principi di una società verticale, il cui fondamento è la discriminazione, che nega la pari dignità delle persone. C’è chi sta sopra e chi sta sotto. È una visione ancora molto praticata a dispetto della Costituzione. In una concezione del genere la corruzione serve per scalare le posizioni. O noi cambiamo l’impostazione culturale o è difficile uscirne».

Lei nelle scuole spiega la legalità. Ma cos’è la legalità? È solo una questione giuridica?
«In sé la legalità è un termine neutro. Significa rispetto della legge, qualunque ne sia il contenuto. C’era legalità nel 1938 se, come succedeva, gli italiani rispettavano le leggi razziali. Se oggi gli italiani si comportassero, come purtroppo qualche volta succede, in base alle leggi razziali, ci sarebbe illegalità».

Con quale senso riempiamo la parola legalità?
«Per capire se la legalità ha una valenza positiva o negativa dobbiamo riferirci a un’altra parola: giustizia. Le leggi sono giuste e ingiuste, le prime creano una legalità giusta, le seconde ingiusta. Ma non abbiamo fatto altro che spostare nuovamente il problema: cos’è la giustizia?».

Sembra un concetto inafferrabile.
«Solo se la si pensa teoricamente. Secondo me, a stabilire la giustizia delle leggi ci si arriva in via sperimentale, per esperienza».

Può fare un esempio?
«Chi ha scritto la Costituzione ha rovesciato il modo di stare insieme. C’erano stati dei prodromi, la scelta della Repubblica, il voto alle donne, ma la vera rivoluzione è stata l’entrata in vigore della Carta. Prima la regola era la discriminazione, non solo di genere, ma di censo, di etnia, di religione. Arriva la Costituzione e riconosce solennemente la dignità universale, il contrario della discriminazione. I costituenti lo affermano perché alle loro spalle hanno due guerre mondiali. Noi facciamo fatica a capire cosa hanno vissuto e sofferto: i 55 milioni di morti della Seconda Guerra mondiale per noi sono solo una statistica che per di più non ci mostra chi ha perso un braccio, una gamba, la vista, la casa. Una tragedia resa ancora più agghiacciante dalla Shoah e dalla bomba atomica. Oggi assimiliamo la bomba atomica a un cataclisma naturale, in tanti siamo nati quando c’era già. A chi viveva allora, quell’ordigno ha cambiato il futuro. La conseguenza è la Costituzione e, quasi un anno dopo, la dichiarazione dei diritti dell’uomo nel cui preambolo ci si riferisce chiaramente alla necessità di evitare che si ripetano le barbarie che hanno insanguinato il secolo scorso. Il primo articolo della dichiarazione afferma che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”. Significa che lo strumento per evitare che in futuro quell’orrore possa ripetersi consiste nel riconoscere finalmente la pari dignità di ciascuno. Si dà così alla parola democrazia non solo un valore formale (una testa, un voto) ma sostanziale (la pari dignità è il presupposto che giustifica “una testa, un voto”)».

Non teme che affidare il senso della giustizia all’esperienza e in ultima istanza alla storia sia pericoloso? Anche la giustizia di oggi domani può diventare ingiusta.
«Non possiamo dire che è o diventerà ingiusta perché fino a oggi non l’abbiamo sperimentata realmente. Constato infatti che continuiamo ad applicare le regole di ieri».

È questa la ragione per cui corruzione ed evasione fiscale sono così diffuse?
«È così. La radice è sempre quella».

È possibile cambiare?
«È complicato perché, come diceva Kant, siamo un legno storto e le nostre imperfezioni sono enormi. Non abbiamo solo la testa ma anche la pancia che spesso prende il sopravvento. La prima cosa da fare è individuare il campo dove operare. È quello educativo. In secondo luogo è necessario conformare l’educazione al principio informatore della nuova organizzazione sociale. Non è semplice perché siamo imbevuti di cultura verticale e continuiamo a educare secondo il relativo schema. Vediamo le regole come un mezzo per imporre l’obbedienza e della regola guardiamo molto più la sanzione che il precetto, in perfetta sintonia con una società dove chi sta sopra comanda e chi sta sotto obbedisce».

E se non obbedisce viene punito…
«La sanzione porta all’obbedienza. Del precetto ci dimentichiamo. Dovrebbe essere il contrario, perché il precetto ti dice come ottenere il risultato. Negli incontri a scuola con i ragazzi faccio esempi concreti che sfiorano la banalità. Chiedo: vi piacciono le regole? No. E le torte? Sì. Secondo voi c’è una relazione tra la torta e la regola? Qualcuno ci arriva subito, qualcun altro dopo un po’. La risposta è sì, perché per fare la torta bisogna seguire una regola, la ricetta. La regola è un’indicazione per raggiungere il risultato. Si accorgono di essere in contraddizione. Non amano le regole, ma amano ciò che con le regole si crea».

Perché si dimentica il precetto?
«Perché spesso non riusciamo a vedere il risultato. Così chi non paga le tasse dice non pago perché gli altri rubano. Può succedere, ma l’affermazione è generalmente una scusa. Ci sta dietro una convinzione che dipende dal non vedere che le imposte sono le risorse che permettono a tutti di avere i diritti. Non si può avere sicurezza, istruzione, sanità, acqua corrente in casa senza risorse e cioè i soldi che arrivano dalle tasse».

Lei sostiene che le sanzioni contro la corruzione servono a poco. Altri vorrebbero sanzioni più severe.
«Se usiamo la sanzione per far rispettare la regola, ma la sanzione non viene applicata, implicitamente comunichiamo che il comportamento formalmente vietato è in effetti consentito».

Se la sanzione non arriva significa che la giustizia non funziona.
«Credo che sia impossibile riuscire a controllare tutto, salvo essere controllati dall’occhio del Grande Fratello. L’amministrazione della giustizia non funziona se le regole sono in contrasto con la cultura e la consuetudine. Anche se le pene sono aumentate la corruzione non è sparita. Ricordiamoci le grida manzoniane. Ammesso che il diritto penale serva per educare le persone, cosa a cui non credo ormai per niente, in realtà se servisse educherebbe solo all’obbedienza. In una democrazia non abbiamo bisogno di persone obbedienti, ma di persone che sappiano gestire la loro libertà, che sappiano scegliere e discernere. Bisogna insegnare a discernere, non a obbedire. Altrimenti la democrazia salta».

Quali sono le responsabilità della politica?
«Faccio un’affermazione forte: la politica è meno colpevole del cittadino. Sa perché Mani Pulite è finita? Perché all’inizio le prove ci portavano verso chi stava in alto, il segretario di partito, il sindaco, l’onorevole. Figure con cui i cittadini non si identificavano, e allora tutti a sostenere le indagini, a volte anche scorrettamente (ricordiamoci della dignità delle persone). Poi le inchieste sono proseguite e sono emerse le corruzioni del cittadino comune: il vigile che fa la spesa gratis e non controlla la bilancia del salumiere, l’ispettore del lavoro che per poche lire non controlla se ci sono le cinture di sicurezza nei cantieri. Allora i cittadini hanno cominciato a pensare: ma questi qui cosa vogliono? Vogliono vedere quello che faccio io? Non ci pensino nemmeno! Sono sparite le prove e Mani Pulite è finita. Spesso nelle scuole parlo di evasione fiscale. Tutti la maledicono, sono convinti di non averne a che fare. Replico che non sto parlando dell’evasione di Zio Paperone. Mi rivolgo direttamente ai professori e ai genitori. “Certamente non voi, ma quanti pagano le tasse alla mattina perché gliele trattengono sullo stipendio e al pomeriggio fanno lezioni private in nero? O quanti non si fanno fare la fattura dall’idraulico perché così costa meno?”. L’atteggiamento dei miei ascoltatori cambia».

C’è un problema di selezione della classe dirigente?
«È necessario non fare di tutte le erbe un fascio. Se per molti si sta insieme (meglio, ci si mette in scala) per furbizia, per tante persone si sta insieme evitando di imbrogliarsi. Anche in politica. Ai tempi di Mani Pulite molto spesso la corruzione era legata al finanziamento illecito dei partiti, e il finanziamento costituiva una sorta di giustificazione. Un po’ ipocrita, ma reale. A chi manovrava le tangenti per i partiti magari restava qualcosa attaccato alle mani (si sa che il denaro è appiccicoso) ma era poco a fronte delle centinaia e centinaia di miliardi che giravano. La dignitosissima e disperata lettera di Sergio Moroni è profondamente significativa. Moroni si suicida perché gli sembra che gli sia stata tolta la terra da sotto i piedi. Certo il finanziamento illecito era reato, ma era come se il reato fosse stato abrogato dalla prassi, la regola effettiva per lui era che si poteva fare».

Mani Pulite ha distrutto i partiti della cosiddetta prima Repubblica.
«Mani Pulite, come la scomparsa di tanti partiti storici, è la conseguenza della caduta del Muro di Berlino. Prima — penso alla P2, ai fondi neri dell’Iri, indagini che ho svolto personalmente — succedeva che, quando non era possibile fare altrimenti, fosse la stessa magistratura a togliere le castagne dal fuoco. La regola era che in certi cassetti non si guardava».

Che cosa le chiedono gli studenti?
«Il mio approccio è “costituzionalmente orientato”: bisogna sì parlare, ma anche ascoltare. Purtroppo l’ascolto non è una caratteristica costante nelle nostre scuole. Non bisogna generalizzare, ci sono molte eccezioni, ma l’atteggiamento complessivo è molto verticale. Lo si vede anche nei piccoli dettagli, per esempio nel come ci si rivolge ai ragazzi. Giorni fa in un’aula di terza media, prima che arrivassero professori e preside, chiacchieravo con un ragazzo dandogli del lei. Quando finalmente ha capito che mi rivolgevo a lui un grande sorriso gli ha illuminato il viso perché ha sentito di essere considerato».

Il mondo salvato dai ragazzini?
«Sì, peccato che poi ci siamo noi, gli adulti. Ci aiuta un po’ il fatto che c’è un ricambio generazionale».

Pessimismo da una parte, via d’uscita dall’altra. Chi vince?
«Non sono pessimista, faccio fotografie. La via d’uscita dipende dall’impegno che ci si mette. Sono ottimista perché vedo quanto i ragazzi sono disposti a coinvolgersi su questi temi».

Nonostante tutto crede nel progresso?
«Ogni tanto si verificano terribili ricadute, come il fascismo e il nazismo nel secolo scorso, ma il trend complessivo è che si va avanti. La schiavitù non è più legale da un secolo e mezzo negli Stati Uniti, e le donne votano in Italia da oltre 70 anni. Siamo molto lenti a cambiare, ma la nostra storia ci dice che ne siamo capaci».

Maurizio Giannattasio (pubblicato su Il Corriere della Sera il 12.05.2019)

Dal Dna dei sardi la «chiave» per scoprire perché ci ammaliamo

Un’isola straordinaria, in tutti i sensi. La Sardegna è un luogo davvero unico, non solo per il paesaggio: gli abitanti sono una delle popolazioni più speciali d’Europa, perché hanno un Dna pieno di sorprese che potrebbe addirittura aiutarci a capire perché ci ammaliamo di sclerosi multipla, diabete e così via. Lo ha spiegato Francesco Cucca, direttore dell’Istituto di ricerca genetica e biomedica del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Irgb) e docente di Genetica Medica dell’Università di Sassari, durante il Festival della Scienza Medica di Bologna, raccontando anche come i sardi di oggi siano fra i popoli più “primitivi” d’Europa perché hanno un genoma rimasto pressoché intatto nelle ultime decine di migliaia di anni.

Leggere il genoma di un sardo infatti è come salire su una macchina del tempo che ci riporti fino al neolitico, spiega Cucca: «Il Dna dei sardi è una specie di orologio molecolare che ci ha aiutato, per esempio, a datare la comparsa dell’uomo moderno fissando la sua origine duecentomila anni fa, ovvero centomila anni prima di quando si pensava fino a poco tempo fa. Abbiamo anche potuto datare l’arrivo sull’isola di popolazioni dall’Africa subsahariana, circa duemila anni fa al tempo della dominazione romana». Leggere il genoma dei sardi è insomma come sfogliare le pagine di un libro di storia, ma soprattutto come dare un’occhiata all’aspetto e alle caratteristiche degli uomini della preistoria perché l’isola, a parte pochi sporadici “ingressi”, è rimasta isolata e non ha subito invasioni come, per esempio, la Sicilia. «Il profilo genetico è rimasto immutato dal neolitico fino alle civiltà nuragiche e oltre, è quello delle popolazioni europee primitive», spiega Cucca.

Tutto questo è interessante dal punto di vista antropologico, ma anche medico: i numerosi progetti di sequenziamento genetico di popolazioni isolate nella Sardegna, isole nell’isola, stanno dando informazioni importanti per capire per esempio le caratteristiche e lo sviluppo di alcune malattie autoimmuni come il diabete di tipo 1 o la sclerosi multipla, entrambe molto più diffuse fra i sardi rispetto al resto della popolazione. Sottolinea Cucca: «La frequenza di queste malattie in Sardegna è la più alta al mondo, studiare il Dna dei sardi può aiutarci a capire perché e anche a trovare bersagli molecolari nuovi. Abbiamo visto, per esempio, che un gene conservato nel Dna dei sardi si associa all’incremento di malattie su base autoimmune come la sclerosi multipla: è lo stesso che nel topolino porta a una maggior resistenza alla malaria, per cui è possibile che nell’isola si sia mantenuto perché conferiva una protezione utile da questa malattia. In passato, quindi, favoriva la sopravvivenza ma oggi è un “fardello” che aumenta il rischio di malattie autoimmuni; averlo scoperto significa poter lavorare su un nuovo bersaglio terapeutico».

Elena Meli (pubblicato da Il Corriere della Sera l’11.05.2019)

Al via il progetto “L’italiano in campo” per imparare l’italiano attraverso lo sport

Il Consolato Generale d’Italia a Buenos Aires ha dato il via giovedì 9 maggio al progetto “L’italiano in campo” con il fine di avvicinare i giovani alla lingua italiana attraverso lo sport.

Dopo la giornata di presentazione, avvenuta lo scorso 21 novembre, prende avvio la fase principale dell’iniziativa che si svolgerà con incontri settimanali presso il Club Italiano di Buenos Aires, da maggio a settembre e si concluderà ad ottobre con una festa finale.

Con questa attività il Consolato Generale d’Italia a Buenos Aires porta avanti la sua strategia di diffusione della lingua italiana attraverso pratiche partecipate e divertenti.

L’obiettivo sarà dunque rendere più facile e stimolante l’apprendimento dell’italiano attraverso giochi ed esercizi sportivi, utilizzando le discipline dell’hockey su prato e del calcio per realizzare lezioni in modo informale fuori dall’aula.

Durante “L’italiano in campo” i circa 100 bambini e bambine di quattro scuole primarie pubbliche di Buenos Aires, dove già si insegna l’italiano in virtù di uno specifico accordo stipulato tra il Governo della Città di Buenos Aires ed il Consolato, si cimenteranno in prove e giochi che stimoleranno le loro abilità sportive e linguistiche. Gli esercizi impegneranno i bambini nell’apprendimento linguistico di concetti base come i colori, i numeri e i termini tecnici di ambito sportivo.

L’organizzazione dell’evento è stata affidata alla ONG La Victoria, che si occupa da anni di progetti sportivi e sociali. Oltre al Presidente della Ong Pablo Olmos, al progetto collabora uno staff di 12 persone composto da: Andrea Pedemonte – responsabile generale del progetto; Monica Arreghini – professoressa di italiano della Dante Alighieri e referente per i rapporti con le scuole, Matias Luppani – istruttore di hockey ed ex nazionale sia italiano che argentino, Jacopo Bianchi – istruttore di calcio madrelingua, quattro ragazzi italiani che stanno svolgendo un anno di servizio civile internazionale in Argentina con l’Associazione Agisco; la FACA (Federazione delle Associazioni Calabresi in Argentina) nonché quattro studenti della scuola per docenti di italiano.

L’attività progettuale, che ha ottenuto il patrocinio del CONI Argentina, è stata resa possibile grazie alla cooperazione del Consolato Generale e del suo Ufficio scolastico con numerosi partner tra i quali si annoverano: la squadra di calcio U.C.Sampdoria che ha donato le divise di gioco per i bambini, la Federazione Italiana Hockey che ha inviato i bastoni e le palline per praticare questo sport, il Patronato INCA di Buenos Aires che ha donato il materiale per i giochi in italiano, il Club Italiano che ospiterà gratuitamente le attività e l’Accademia Sportiva Italiana che ha messo a disposizione le sue competenze in ambito organizzativo.

Andrea Pedemonte

Il terremoto: un evento carico di significato filosofico

Se c’è un evento che è carico di significato filosofico, questo è il terremoto. Del resto i terremoti hanno dato sempre molto da pensare ai filosofi, anzi sembra che da esso siano perseguitati. Pensando al terribile terremoto di Lisbona del 1 novembre del 1755, nel quale perirono non meno di un quarto degli abitanti della capitale portoghese, e che pare che sia stato avvertito persino in Scandinavia, Voltaire (1694-1778) intreccia un fitto dialogo a distanza con Rousseau (1712-1778) sul rapporto degli uomini con la natura, e riserva la sua mordace ironia a Leibniz (1646-1716), che aveva definito quello in cui gli uomini vivono il migliore dei mondi possibili.

Sappiamo poi come il nostro Leopardi (1798-1837), ospite a Napoli dell’amico Antonio Ranieri, testimone di una devastante eruzione del Vesuvio, in memorabili versi, abbia sbattuto in faccia questa terribile realtà della natura a tutti quei suoi contemporanei che mostravano di credere ciecamente nelle “magnifiche sorti e progressive”.

In tempi più vicini a noi, Benedetto Croce (1866-1952) nel terremoto di Casamicciola del luglio del 1883, quando aveva solo 17 anni, perse tutti e due i genitori e una sorella, e si salvò per miracolo, dopo essere rimasto per molto tempo sepolto sotto le macerie. Scriverà nelle sue memorie che da allora sarà preso dal terrore di dormire sotto le coperte. La sua stessa filosofia porterà i segni di una umbratile precarietà.

Nel terremoto di Messina e Reggio Calabria del dicembre del 1908, dove persero la vita almeno centomila persone, Gaetano Salvemini (1873-1957), tra i massimi storici del Novecento, vide morire la moglie e tutte e quattro le figlie femmine, mentre l’unico figlio maschio, disperso, non fu mai ritrovato. Confesserà più tardi che per molti anni, ogni giorno, dovette combattere contro la tentazione del suicidio.

A proposito del nostro terremoto, quello del 6 aprile 2009 a L’Aquila, di fronte a chi dice che ci dobbiamo lasciare alle spalle questa terribile esperienza, mi viene di pensare: ma cosa sono in fondo dieci anni? L’anima non conta gli anni, conta solo i battiti e i pensieri. Il terremoto, tra tutte le disgrazie collettive, è la più carica di significato esistenziale.

La terra che ti manca sotto i piedi, la casa che rischia di crollare, il mondo che sembra uscito dai suoi gangheri, è l’esperienza più vicina alla fine del mondo. Se anche la terra ti manca e le mura della casa si sgretolano, tutto diventa precario, e tutto diventa assurdo. Il mostro è l’assurdo che si materializza, e che sceglie le sue vittime con precisione chirurgica, mentre Dio si nasconde.

“Sono almeno quattro secoli che ci ripetono che l’universo si regge sulla forza – scriveva negli anni trenta del secolo scorso Simone Weil – è poi ci lamentiamo che qualcuno la usi?” La natura è opaca, e la forza è il suo fondamento; così come la storia è ambigua, e la violenza la sua nota dominante. È l’universo interiore che dobbiamo puntellare, quello che veniva meno in quella terribile notte di dieci anni fa.

Era forse così per tutti, ma quella notte abbiamo dovuto sacrificare al mostro, quello che di tanto in tanto ci vorrebbe far sprofondare nel pozzo nero della disperazione prodotta da un dolore senza senso, trecentonove fratelli. Li ringrazieremo mai abbastanza per questo? È questa la domanda principale alla quale siamo chiamati a rispondere. E la risposta è importante. La posta in gioco è alta.

Giuseppe Lalli

* Giuseppe Lalli è nato a L’Aquila il 5 settembre 1954. Funzionario di banca in pensione, è laureato in Scienze Politiche con indirizzo storico, in Filosofia e recentemente per la terza volta ha conseguito con lode una laurea magistrale in Filosofia e Comunicazione, con una tesi sugli “aspetti teologici del pensiero di un filosofo medievale”.

Nella Foto: Benedetto Croce

I pilastri della famiglia

Per molti figli di emigrati italiani in altri continenti i nonni erano quelle persone lontane che regolarmente inviavano pacchi regali per le grandi feste, e che sentivamo alla cornetta del telefono per fare gli auguri fugaci e ringraziare loro per i regali.

Quando abbiamo parlato della famiglia degli emigrati italiani nell’ultimo articolo (https://thedailycases.com/le-famiglie-infrante-the-splintered-families/) abbiamo lasciato a parte un dettaglio particolare delle nostre famiglie che è spesso dimenticato quando si parla della Storia dell’Emigrazione Italiana.

Il maschio che partì per trovare un lavoro all’estero è quasi sempre il punto di riferimento delle ricerche, però, non erano i maschi che tenevano insieme le famiglie nelle terre nuove e che tramandavano ai figli e poi i nipotini le tradizioni e anche la lingua che permette loro di identificarsi come italiani.

In molti modi i veri pilastri delle famiglie italiane erano e sono le madri, non solo nelle cucine e negli orti per preparare i pranzi, le cene e i prodotti di famiglia che tutti conosciamo, ma erano anche quelle che seguivano di più gli studi dei figli, che insegnavano ai figli la basi della religione e che erano la prima persona che i figli cercavano dopo gli inevitabili scontri a scuola non solo con i coetanei, ma spesso anche con insegnanti a causa delle loro origini.
Rito e Spezie

Uno dei ricordi più forti della mia gioventù erano gli aromi del rito annuale del maiale. Non nel senso dell’odore della carne e le budella che mio fratello odiava, ma nel senso della fase finale di tutta la procedura, la preparazione delle salsicce.

Lei preparava attentamente le spezie che venivano seccate, secondo le tradizioni del suo paese nel Sud Pontino. Il pepe, peperoncino, i semi di coriandolo e finocchio venivano macinati e aggiunti insieme al sale. Poi, la sera metteva un campione della miscela di carne macinata e spezie in padella per friggere per assicurare il gusto giusto e di solito ci volevano tre o quattro piccole padellate per ottenere la miscela giusta. Quegli aromi riempivano la casa e il gusto particolare delle salsicce era l’accompagnamento perfetto per i broccoli, per preparare sughi e poi con pane fresco quando seccati e messe sotto sugna per conservarle per le occasioni e le visite speciali.

Abbiamo avuto la fortuna sempre di aver avuto case con terreno sufficiente per far orti che producevano verdure fresche e adatte anche da mettere sott’olio e/o aceto, come i carciofi, le melanzane e i peperoni, che inevitabilmente riempivano i nostri panini per il pranzo a scuola.

Purtroppo, quella stagione non c’è più in casa nostra, però i ricordi rimangono forti e mi accompagneranno fino al giorno che raggiungerò di nuovo i miei genitori.

Quello era solo un modo con il quale noi figli di emigrati italiani abbiamo imparato che siamo diversi dai nostri coetanei in Australia. Però, non dobbiamo cadere nel tranello eterno di farci identificare solo dal nostro cibo come fanno molti.

Dante Alighieri

Nel mio caso voleva dire andare il sabato mattina (in Australia non ci sono lezioni di sabato) in una classe per lezioni della lingua italiana organizzate dalla Società Dante Alighieri. Nei giri in centro con mamma era lei che comprava i fumetti di Topolino che erano le mie prime letture vere in italiano.

Come nelle altre famiglie italiane dell’ondata post seconda guerra mondiale, era mia madre e le moglie dei nostri amici e pochi paesani che organizzavano le feste dopo le prime comunioni e cresime. Erano loro spesso che preparavano i vestiti speciali per le figlie e portavo noi maschi ai negozi per i vestiti giusti per le occasioni.

Sabato sera, e non raramente la domenica, c’erano le cene e i pranzi con compari e paesani e i loro figli. La tavole piene dei prodotti di casa e i profumi dei dolci fatti in casa. Alla fine dei pasti i maschi andavano in salotto per parlare di lavoro, calcio o altri soggetti, magari anche per partite di scopa, briscola o tresette. Le mogli rimanevano in cucina dopo aver lavato i piatti tutte insieme per parlare degli ultimi sviluppi in casa, notizie dall’Italia, oppure in molti casi, modi per poter avvicinare il figlio di una con la figlia di un’altra nella speranza di unire le famiglie.

Scuola

I padri erano sempre impegnati a lavoro. Nel caso di mio padre e zio che lavoravano insieme per anni ha voluto dire che andavano via per fare lavori in compagna per una settimana o due alla volta, perché pagava di più e allora mia madre e zia (zio e zia vivevano con noi allora) tenevano a bada casa e figli. Perciò erano le madri che tenevano le famigli unite.

Quando c’erano problemi a scuola erano le madri che sapevano tutto e andavano agli insegnanti per sapere dei problemi, oppure per capire i motivi di qualche brutto voto. Erano le madri che ci portavano dai medici per le visite e controlli quando eravamo malati, ed erano quasi sempre le madri che capivano se i figli avessero problemi che nascondevano ai genitori.

Ma in un caso particolare, erano i padri che decidevano per la famiglia e le madri, almeno pubblicamente, dovevano far finta d’essere d’accordo col marito, ma certamente nella stanza da letto dicevano le loro opinioni sull’accaduto.
Le figlie

Inevitabilmente, per tutte le famiglie, i figli arrivano al punto di cercano la libertà personale. Per i figli delle ondate post belliche, le famiglie erano nella stragrande maggioranza di origine rurale, spesso provenienti da piccoli villaggi e paesi e quindi con un atteggiamento particolare verso le figlie. Dobbiamo specificare che in questo caso non c’erano differenze regionali tra le regioni meridionali e quelle del Veneto e il Friuli.

Di solito i figli avevano una libertà che non era permesso alle loro sorelle. I maschi uscivano in gruppi per fare quel che potevano, le figlie dovevano rimanere in casa e quelle poche volte che potevano uscire erano ben controllate, e non era insolito vedere madri accompagnare le coppiette nei loro appuntamenti.

A decidere questo non era quasi mai la madre, ma il padre. Solo anni dopo abbiamo capito che l’atteggiamento del padre dipendeva dal proprio passato, ma da giovani non potevamo capire che anche i nostri genitori e zii una volta erano stati giovani in cerca degli stessi divertimenti. Ed erano le madri che tenevano la pace in casa.

Ma con il tempo questo è cambiato, qualche circolo italiano cominciava a organizzare serate per i giovani e questi erano considerati luoghi “sicuri” dove lasciare le figlie per qualche ora. Poi, le ragazze hanno capito che se uscivano in gruppo di cugine i genitori, anzi i padri, pensavano che sarebbero state meno propense a seguire i loro istinti naturali.

Cosi son iniziati i primi veri passi dei figli nel loro nuovo paese di nascita ed è stata la fine di quel periodo dove le famiglie vivevano davvero in due mondi. In casa con la lingua e le tradizioni dei genitori, e a scuola e poi lavoro dove si interagivano sempre di più con non italiani e magari eventualmente sposavano non il figlio del compare o il paesano, ma qualcuno con un cognome strano alle orecchie italiane.

A sorvegliare questi cambi di tradizioni e usanze all’interno delle famiglie erano quasi sempre le madri che più dei padri capivano da vicino che i loro figli dovevano fare parte del loro paese di nascita, a tutti gli effetti. Poi le madri sono diventate le nonne che hanno passato ai nipotini alcuni degli aspetti del loro passato, e quindi sono state le nonne ad assicurare che i loro discendenti avrebbero mantenuto parte della loro identità italiana nel nuovo paese di residenza.

Queste poche parole dimostrano che in tutti i sensi i pilastri del cambiamento da famiglia italiana a famiglia italo-australiana, italo-brasiliana, italo-americana, ecc sono le donne. Per questo motivo dobbiamo tenere vivi questi ricordi degli sforzi dei milioni di madri e donne italiane in giro per il mondo e quindi ripetiamo il nostro appello ai lettori di inviare le loro storie per assicurare che i loro ricordo duri il più possibile.

Gianni Pezzano

La patria della (non) discordia

La parola “patria”, dalla sparatoria di Macerata al poemetto di Patrizia Cavalli, passando per Cavour e Macron: un’intervista a Francesco Bruni, professore di Storia della Lingua all’Università Ca’ Foscari di Venezia e accademico della Crusca e dei Lincei.

Professor Bruni, partiamo dal significato di “patria”: si tratta di una parola importante?

«È importante perché appartiene ad una famiglia di parole che dimostra, tanto per fare un esempio, come ci sia una grande elasticità nei significati che le parole che possono avere. Patria deriva da “pater”, quindi è una parola che, insieme con “madre”, ci riporta alle origini della vita. È una parola profondamente legata alla biologia. È una parola della ‘famiglia’ in senso stretto: marito moglie, padre, madre e figli. Per lo Stoicismo, una delle correnti filosofiche della cultura greca classica, la patria del sapiente è il mondo. Andiamo dallo stretto ‘privato’ della famiglia mononucleare al mondo come patria del sapiente, che non è legato ad una città, ad uno Stato, perché con la sua sapienza può abitare dappertutto. Si passa dal privato all’universale e dalla concretezza della biologia, e della realtà familiare, all’astratto».

Quanto viene utilizzata oggi la parola ‘patria’ e in quali contesti?

«Abbastanza poco e in contesti particolari. Penso al giovane che ha sparato a Macerata contro gli immigrati: ha usato la parola “patria”, ha fatto il saluto romano davanti all’altare dei caduti di Macerata, e quindi questa è la “patria” neofascista. Ora, evidentemente, la “patria” per i liberali che hanno fatto buona parte del Risorgimento italiano, come Cavour, per intenderci – il più importante e geniale di tutti – è una parola che significa sviluppo civile e progresso tecnico, come nel caso della costruzione delle ferrovie che Cavour già prevedeva prima dell’Unità d’Italia, che era una delle nuove tecnologie dell’epoca insieme alla macchina a vapore. Quindi “patria” aveva un significato diverso da quello della “patria” del Fascismo, che assunse caratteri aggressivi, soprattutto con l’Impero d’Etiopia e poi con la partecipazione alla Seconda guerra mondiale. La parola può essere usata in molti sensi. Oggi in molti hanno pensato che si dissolvesse nell’Unione Europea, ma dobbiamo fare i conti con il rapporto fra la “patria” e lo Stato perché il sentimento della patria giova alla solidarietà statale, di cui oggi lamentiamo la polverizzazione».

Professore, le parole che spariscono a seguito dei mutamenti socioculturali, poi riaffiorano anche con lo stesso significato?

«Le parole si nutrono di situazioni sociali e culturali che possono esaurirsi a seguito dei normali mutamenti, e possono riaffiorare con un significato negativo, ma anche positivo. Infatti, per fare un esempio, il presidente Macron usa volentieri la parola ‘patria’. È un europeista che però concilia lo spirito europeo con lo spirito del patriota francese».

Perché questa attenzione alla parola “patria”?

«Ho scelto “patria” perché, essendo un italianista e avendo insegnato Storia della lingua italiana per tanti anni, mi piace la storia delle parole che si evolvono nel tempo».

Quando “patria” emerge dalla letteratura, tutto è più chiaro?

«L’ultimo paragrafo del mio ultimo libro, “Patria”, è dedicato ad un poemetto di una nota poetessa, originaria di Todi, Patrizia Cavalli, intitolato “Alla patria”, dove dà una visione non retorica, non antiquata, di una patria quale la si può vedere oggi, un patria malandata, ma ancora con degli elementi che sono significativi e non la patria dei discorsi pubblici che spesso non ci convincono. Si tratta dei piccoli scorci che ci fanno riconoscere l’Italia come una realtà che ancora ha da dirci qualcosa».

 

Da “Alla patria” di Patrizia Cavalli

Capita a volte
che hai un mezzo pomeriggio in una delle tante
belle città italiane di provincia.
Vai dove devi andare, non hai voglia
di fare la turista, e anzi scegli
stradine laterali, senza gente;
camminando t’imbatti in uno slargo
con una chiesa, di quelle un po’ neglette,
spesso chiuse; sei già in ritardo, ma guardi
la facciata che sonnecchia, e subito
i tuoi passi si allentano, si disfano,
si fanno trasognati finché non resti
immobile a chiederti cos’è
quel denso concentrato di esistenza
sorpresa dentro un tempo che ti assorbe
in una proporzione originaria.
Più che bellezza: è un’appartenenza
Elementare, semplice già data.
Ah, non toccate niente, non sciupate!
C’è la mia patria in quelle pietre, addormentata.

Patrizia Cavalli (Todi, 17 aprile 1947) è una poetessa italiana. Ha pubblicato per la Collezione di poesia di Einaudi alcune raccolte di successo: Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974), Il cielo (1981), Poesie 1974-1992 (1992), L’io singolare proprio mio (1992) e Sempre aperto teatro (1999, Premio Letterario Viareggio-Repaci), Pigre divinità e pigra sorte (2006, Premio Dessì). L’ultima raccolta è Datura (2013).

Alessandra Leonini

Il Sentiero della Libertà

Da Venerdì 3 maggio a Domenica 5 maggio 2019 avrà luogo la 19α edizione del Sentiero della Libertà/Freedom Trail nelle sue tre tappe storiche, Sulmona-Campo di Giove-Taranta Peligna-Casoli. Era il sentiero che da Sulmona giungeva a Casoli, valicando la Majella, percorso da migliaia di prigionieri alleati in fuga dai campi di concentramento e di giovani italiani che si dirigevano verso il Sud per combattere a fianco dell’esercito alleato.

La Marcia Internazionale Il Sentiero della Libertà/Freedom Trail/Freiheitsweg/Chemin de la Liberté, organizzata dall’Associazione “Il Sentiero della Libertà”, torna a farsi intermediario tra passato e presente proponendo la riflessione sui valori di Libertà, Solidarietà, Pace ai partecipanti, quasi 600 persone, soprattutto ragazze e ragazzi. Arriveranno da Cuneo, da Brescia, da Roma, da Ancona per unirsi agli studenti e alle studentesse abruzzesi. Con loro altri “viaggiatori”, donne e uomini, che lungo il cammino si propongono di vivere un’esperienza in armonia con la natura, con gli altri, con se stessi.

Insieme ricorderanno un passato di terrore e di coraggio, di barbarie e di solidarietà come sottolineò l’allora Presidente della Repubblica Italiana, Carlo Azeglio Ciampi, nel discorso per la prima edizione del 2001: «Oggi un gruppo si accinge a ripercorrere quegli aspri sentieri, i sentieri della libertà. Anch’io fui uno di loro, lasciai Sulmona, lasciai coloro che mi avevano accolto come un fratello…».

Quest’anno ricorre il 75ᵒ anniversario di quella data, 24 marzo 1944, quando Carlo Azeglio Ciampi affrontò la traversata, lasciandone un documento scritto, curato dall’Associazione “Il Sentiero della Libertà/Freedom Trail”, riportato in parte sul “Quaderno di Viaggio”, che verrà consegnato ai singoli partecipanti. All’Associazione “Il Sentiero della Libertà” organizzatrice della marcia sta a cuore far crescere la cultura della memoria non come rito del passato ma come domanda di storia, di approfondimento, di conoscenza e per questo saranno i ragazzi, durante le diverse tappe, a ricordare e a porsi domande nuove. Si partirà da Sulmona venerdì 3 maggio alle 9.30 da piazza XX Settembre.

Dott.ssa Maria Rosaria La Morgia

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