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May 2022

Italiani in Venezuela: Fabio Porta chiede al governo l’urgente erogazione delle risorse destinate all’assistenza sanitaria

Facendosi interprete dei ripetuti e preoccupati appelli che negli ultimi mesi si sono moltiplicati, chiedendo al governo italiano di intervenire con l’adeguata e urgente erogazione di risorse destinate all’assistenza sanitaria, il Senatore Fabio Porta ha rivolto una interrogazione urgente al Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Luigi Di Maio. 

Nell’interrogazione, il parlamentare eletto in Sudamerica fa riferimento alla “situazione di prolungata crisi umanitaria che la sede consolare di Caracas in Venezuela si trova ad affrontare, resa più complessa e pesante dalle conseguenze della pandemia” che  “si prolunga ormai da alcuni anni e non manifesta sostanziali tendenze evolutive che possano fare sperare in un passaggio reale di condizione della nostra comunità né nel presente né nell’immediato futuro.” 

Il senatore, fa notare al Ministro che “le esigenze di copertura dei costi per le voci fondamentali di spesa del Consolato generale si presentano con caratteri di forte rigidità e urgenza, dal momento che riguardano soprattutto l’assistenza da prestare agli ammalati e agli indigenti, le spese fisse e le retribuzioni dei digitalizzatori che, oltre ad essere impegnati nel programma di informatizzazione dell’Archivio, di prossima ultimazione, contribuiscono con la loro attività di servizio alla percezione delle entrate amministrative da parte dello stesso consolato; senza contare l’urgenza di rinnovare almeno in parte alcune suppellettili legate all’accoglienza per il pubblico, che versano in uno stato di indescrivibile fatiscenza.” 

Rilanciando gli appelli che hanno visto in prima linea in queste ultime settimane anche i Presidenti dei Comites del Venezuela, il parlamentare eletto in America Meridionale evidenzia nella sua interrogazione come “la necessità di fronteggiare la situazione socio-sanitaria si presenta con caratteri di assoluta drammaticità e urgenza, a causa del continuo scivolamento dei ceti medi e medio-alti sotto la soglia dell’indigenza, anche in conseguenza dell’assidua prassi di esproprio di beni da parte dei poteri pubblici, e dei tassi di inflazione fuori controllo”. 

Per questi motivi, dettagliati ulteriormente nel testo del quesito formale diretto al governo, il Senatore Porta chiede al Ministro degli Esteri “se non intenda considerare, ai fini della destinazione di risorse finalizzate all’assistenza dei connazionali malati e indigenti, la straordinaria situazione in cui versa la nostra comunità in Venezuela destinando risorse adeguate ai compiti che i nostri rappresentanti consolari sono chiamati ad assolvere e se non intenda disporre, con assoluta urgenza, la destinazione di tali risorse alle strutture operative, prima che la mancanza di fondi costringa all’interruzione degli interventi, compresi quelli più urgenti e insostituibili”. 

Presentando la sua interrogazione il parlamentare ha aggiunto che “la situazione dei nostri connazionali in Venezuela ha costituito in tutti i miei anni di mandato parlamentare una assoluta priorità e in questo senso sarò impegnato anche a presentare ulteriori iniziative parlamentari volte ad assicurare la necessaria copertura finanziaria e continuità operativa ai necessari interventi di assistenza sanitaria coordinati dalla nostra rete diplomatico-consolare.” 

Spiegazione sui referendum sulla giustizia

l prossimo 12 giugno, oltre alle elezioni amministrative, si potranno votare anche i cinque referendum sulla giustizia promossi da Lega e Radicali. Alcuni hanno a che fare con l’ordinamento giudiziario e con temi che sono al centro della discussione da parecchio tempo, due riguardano invece profili specifici in materia di processo penale e di contrasto alla corruzione. Lega e Radicali avevano proposto un sesto referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, che però come quelli sull’eutanasia attiva e sulla cannabis è stato giudicato inammissibile dalla Corte Costituzionale.

I quesiti dei cinque referendum sulla giustizia si possono leggere per esteso qui. Sono referendum abrogativi, che chiedono cioè l’abrogazione totale o parziale di leggi o atti con valore di legge esistenti. Affinché il referendum sia valido deve essere raggiunto il quorum di validità: deve cioè partecipare alla votazione la maggioranza degli aventi diritto al voto. Dopodiché, affinché la norma oggetto del referendum stesso sia abrogata, la maggioranza dei voti validamente espressi deve essere “sì”.

Alcuni dei quesiti, peraltro, intervengono su questioni già affrontate dalla riforma strutturale della giustizia su cui sta ancora votando il parlamento. Dopo la riforma del processo penale e di quello civile, già approvate in via definitiva lo scorso settembre e lo scorso novembre, in aprile la Camera dei Deputati aveva infatti approvato anche la riforma che riorganizza in senso ampio il Csm. Ora il testo passerà al Senato e se verrà approvato potrebbero esserci delle conseguenze sia su alcuni referendum sia, in teoria, sulla stessa riforma (ci arriviamo).

Elezione dei membri “togati” del Csm

Il quesito riguarda le norme che regolano l’elezione dei cosiddetti membri togati del Consiglio superiore della magistratura, cioè quelli che sono a loro volta magistrati, modificando in particolare le modalità di presentazione delle candidature.

Il Csm è l’organo di autogoverno della magistratura. Ne fanno parte, per diritto, tre persone: il presidente della Repubblica, che lo presiede, il primo presidente e il procuratore generale della Corte di Cassazione. Gli altri componenti sono eletti per due terzi da tutti i magistrati (e sono i cosiddetti membri togati), per un terzo dal Parlamento in seduta comune (sono i componenti laici). Se oggi un magistrato si vuole proporre come membro del Csm deve raccogliere almeno 25 firme di altri magistrati a sostegno della sua candidatura.

Se vincesse il “sì” decadrebbe l’obbligo della raccolta firme e si tornerebbe alla legge originale che dal 1958 regola il funzionamento del Csm: il singolo magistrato potrebbe cioè presentare la propria candidatura in autonomia e liberamente senza il supporto di altri magistrati e senza, soprattutto, l’appoggio delle “correnti” politiche interne al Csm (alcune sono più centriste, altre più vicine alla sinistra oppure alla destra). L’obiettivo del referendum, dicono i promotori, è dunque ridurre il peso di queste correnti nell’individuazione dei candidati, evitare la lottizzazione delle nomine e rimettere al centro la valutazione professionale e personale del singolo al di là dei suoi diversi orientamenti politici.

Chi si oppone al referendum mette in dubbio il fatto che l’eliminazione dell’obbligo di presentare le firme possa essere risolutiva rispetto alla questione delle correnti, ritenendo che il referendum intervenga su una questione minima che non porterebbe a cambiamenti rilevanti. Giovanni Verde, professore emerito di Diritto processuale civile presso l’Università Luiss-Guido Carli di Roma, nel settimanale di documentazione giuridica del Sole 24 Ore ha poi spiegato che «non c’è legge elettorale che non preveda la presentazione di candidature in base a raggruppamenti. La stessa Costituzione riconosce la libertà di associarsi in “partiti” (articolo 4), che svolgono una funzione di necessaria mediazione. Nella magistratura questa funzione di mediazione era svolta dalle “correnti” (e continuerà a essere svolta, anche se si cambierà il nome, da inevitabili forme di associazione, che sperabilmente si realizzeranno intorno a ideali e non a interessi)».

Valutazione della professionalità dei magistrati

Il quesito chiede che la componente laica del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli giudiziari non sia esclusa dalle discussioni e dalle valutazioni che hanno a che fare con la professionalità dei magistrati.

I magistrati vengono valutati dal Csm ogni quattro anni sulla base di pareri motivati, ma non vincolanti, elaborati dal Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e dai Consigli giudiziari. Entrambi questi organi hanno composizione mista: oltre ai membri che ne fanno parte per diritto, sono formati da alcuni magistrati e poi da alcuni membri laici, cioè avvocati e in alcuni casi professori universitari in materie giuridiche. Avvocati e docenti partecipano come gli altri membri all’elaborazione di pareri su diverse questioni tecniche e organizzative, ma sono esclusi dai giudizi sull’operato dei magistrati, in base ai quali, poi, il Csm dovrà procedere per fare le valutazioni di professionalità. Solo i magistrati, dunque, hanno oggi il compito di giudicare gli altri magistrati.

Se vincesse il “sì”, i membri laici avrebbero diritto di voto in tutte le deliberazioni del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei Consigli giudiziari con l’obiettivo, secondo i proponenti, di rendere più oggettivi e meno autoreferenziali i giudizi sull’operato dei magistrati.

Chi è contrario a questo cambiamento sostiene che non sia opportuno affidare un ruolo attivo agli avvocati nel redigere pareri sui magistrati di cui, all’interno dei processi, rappresentano la controparte. Il rischio sarebbe quello di valutazioni preconcette o ostili. Dall’altra parte, potrebbero esserci conseguenze anche per i magistrati stessi se durante un processo si trovassero di fronte all’avvocato che poi potrà esprimere un parere molto importante sul suo lavoro e che avrà conseguenze sulla sua carriera professionale. Insomma, la modifica potrebbe mettere in discussione la terzietà del giudice.

Separazione delle funzioni giudicanti e requirenti dei magistrati

Il quesito è molto lungo e riguarda l’abrogazione delle numerose disposizioni che fondano o danno la possibilità ai magistrati di passare dalla funzione requirente alla funzione giudicante, o viceversa.

La funzione requirente è quella del pubblico ministero, che in un processo è il magistrato che rappresenta l’accusa. La funzione giudicante è quella del giudice, che è invece chiamato a giudicare ed è dunque super partes. Oggi i magistrati, nel corso della loro vita professionale, possono passare da una funzione all’altra con delle limitazioni e non più di quattro volte.

Se vincesse il “sì” si separerebbero nettamente le due funzioni: a inizio carriera il magistrato dovrebbe dunque scegliere o per la funzione giudicante o per quella requirente, senza più la possibilità di passare dall’una all’altra. Le ragioni a sostegno del referendum sono una maggiore equità e indipendenza che sarebbe garantita solo, dicono i promotori, da una netta separazione tra i magistrati che accusano e quelli che giudicano.

Si parla di questo tema da decenni. Chi è contrario alla modifica pensa innanzitutto che per una riforma così significativa e complessa il referendum abrogativo non sia il mezzo più adatto, e che la modifica normativa che ne deriverebbe porrebbe una questione di incompatibilità con la Costituzione, e dunque renderebbe necessaria una sua modifica. Nel Titolo IV dedicato appunto alla magistratura la Costituzione contiene principi e regole che si riferiscono indifferentemente a tutti i magistrati, sia giudici che pubblici ministeri.

Separare le funzioni, dicono i contrari al referendum, isolerebbe poi il pubblico ministero, allontanandolo dalla cultura della giurisdizione: nascerebbe cioè una cultura dell’indagine e dell’accusa autonoma, sganciata da ogni vincolo e ipoteticamente anche da ogni regola deontologica. Secondo questa impostazione il cambio di funzione, insomma, andrebbe considerato almeno in teoria come una cosa positiva per l’esperienza di un magistrato e dunque da preservare.

Limitazione delle misure cautelari

Il quesito referendario interviene per limitare i casi in cui è possibile disporre l’applicazione delle misure cautelari.

La custodia cautelare è la custodia preventiva (cioè una limitazione della libertà) a cui un imputato può essere sottoposto prima della sentenza. L’articolo 274 del codice di procedura penale elenca i casi che giustificano l’applicazione delle misure cautelari: pericolo di fuga, inquinamento delle prove, o quando sussiste il concreto e attuale pericolo che la persona «commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede». Quando, cioè, c’è il pericolo di reiterazione dello stesso delitto.

Se vincesse il “sì”, verrebbe eliminata l’ultima parte dell’articolo 274 del codice di procedura penale, e cioè la possibilità, per i reati meno gravi, di motivare una misura cautelare con il pericolo di reiterazione che, dicono i promotori, è la motivazione che viene oggi usata con maggiore frequenza per imporre prima di una sentenza definitiva una limitazione della libertà personale. I promotori sostengono che la custodia cautelare, da strumento di emergenza, si sia trasformato in una pratica abusata e che l’attuale norma, nella pratica, giustifichi quasi in automatico forme di restrizione della libertà anche in casi in cui l’imputato non è effettivamente pericoloso.

Chi è contrario alla modifica non nega che in Italia si faccia un ricorso frequente alla custodia cautelare, ma fa notare che l’articolo 274 stabilisce già dei limiti all’applicazione delle misure cautelari per il caso che il quesito del referendum chiede di abrogare: il codice, così com’è oggi, specifica che in caso di pericolo di reiterazione la custodia cautelare può essere disposta solo se si tratta di delitti che prevedano una reclusione non inferiore a quattro anni o di almeno cinque anni per la custodia cautelare in carcere.

Su Micromega l’ex magistrato e senatore di Rifondazione Comunista Domenico Gallo ha osservato che il quesito non interverrebbe solo sulla custodia cautelare in carcere e sugli arresti domiciliari, ma anche sulle altre forme di misure cautelari come l’obbligo o il divieto di soggiorno, l’allontanamento dalla casa familiare, il divieto di avvicinamento nei luoghi frequentati dalla persona offesa, il divieto temporaneo di esercitare una professione o un’impresa, la sospensione della potestà genitoriale e altro ancora.

Abolizione del decreto Severino

Il quesito referendario chiede di abrogare il decreto legislativo numero 235 del 31 dicembre 2012 che prevede una serie di misure per limitare la presenza di persone che hanno commesso determinati reati nelle cariche pubbliche elettive.

Il decreto legislativo che il referendum vuole abrogare è meglio conosciuto come “decreto Severino”, dal nome della ministra della Giustizia del governo Monti. Stabilisce il divieto di ricoprire incarichi di governo, l’incandidabilità o l’ineleggibilità alle elezioni politiche o amministrative, e la conseguente decadenza da tali cariche, per coloro che vengono condannati in via definitiva per determinati reati, anche se commessi prima dell’entrata in vigore del decreto stesso. Per quanto riguarda, ad esempio, le cariche di deputato, senatore e membro del Parlamento Europeo la condanna che fa scattare l’applicazione della legge è a più di due anni di carcere per reati di allarme sociale (come mafia o terrorismo), per reati contro la pubblica amministrazione (come peculato, corruzione o concussione) e per delitti non colposi per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore a 4 anni. Il decreto Severino stabilisce poi dei criteri anche per quanto riguarda l’incandidabilità alle cariche elettive regionali o negli enti locali. Prevede, infine, in caso di condanna non definitiva, la sospensione dalla carica in via automatica per un periodo massimo di 18 mesi, cosa che è stata di recente giudicata legittima dalla Corte costituzionale.

Se vincerà il “sì” anche ai condannati in via definitiva verrà concesso di candidarsi o di continuare il proprio mandato e verrà cancellato l’automatismo della sospensione in caso di condanna non definitiva. Come succedeva fino al 2012, e cioè prima dell’entrata in vigore del decreto Severino, torneranno a essere i giudici a decidere, caso per caso, se in caso di condanna sia necessario applicare o meno come pena accessoria anche l’interdizione dai pubblici uffici. I promotori del referendum sostengono che i meccanismi del decreto Severino e in particolare l’automaticità della sospensione in caso di condanna non definitiva siano non solo inefficaci, ma anche dannosi per le persone coinvolte: dicono, nello specifico, che la decadenza automatica di sindaci e amministratori locali condannati ha creato finora «vuoti di potere» e ha portato alla sospensione temporanea dai pubblici uffici di innocenti poi reintegrati al loro posto.

Chi si oppone all’abrogazione sostiene che le motivazioni con cui questo quesito referendario viene presentato si concentrano molto sulla necessità di evitare la sospensione automatica di sindaci e amministratori locali condannati con sentenza non definitiva. Ma il quesito non riguarda l’abolizione di questi singoli aspetti, ma l’abrogazione integrale del decreto Severino, che rappresenta uno dei più ampi interventi normativi di contrasto alla corruzione degli ultimi anni.

Quali quesiti si sovrappongono alla riforma della giustizia della ministra Cartabia?

Tre quesiti referendari su cinque trattano questioni contenute anche nella riforma della giustizia della ministra Cartabia che deve ancora essere votata al Senato: sono quelli che riguardano le modalità di elezione dei membri togati del Csm, le modalità di valutazione della professionalità dei magistrati e la separazione delle funzioni.

Per quanto riguarda le modalità di elezione dei membri del Csm scelti dalla magistratura la riforma, con l’obiettivo di ridurre il peso delle correnti interne, stabilisce che l’elezione avvenga con un sistema misto, maggioritario e proporzionale. È un sistema elettivo piuttosto articolato che serve soprattutto a introdurre una componente di imprevedibilità nelle elezioni del Csm, accusate da anni di favorire clientelismi, lottizzazioni delle cariche, avanzamenti di carriera legati all’appartenenza politica, e in generale di compromettere la neutralità e l’efficienza dell’organo. Inoltre, esattamente come prevede il referendum, la riforma stabilisce che la candidatura non sia sostenuta da una raccolta firme e che sia individuale. In questo caso, dunque, quesito referendario e riforma si sovrappongono.

Per quanto riguarda la valutazione degli avvocati, invece, non c’è coincidenza. La riforma del Csm della ministra Cartabia prevede che solo la componente degli avvocati e non quella dei docenti universitari ottenga la facoltà di esprimere un voto sulla professionalità dei magistrati e solo dopo un preventivo parere dell’Ordine. Il referendum chiede invece la possibilità di un voto deliberativo sia degli avvocati che dei docenti universitari.

La sovrapposizione tra riforma Cartabia e referendum è parziale anche per quanto riguarda la separazione delle funzioni dei magistrati: la riforma prevede che sia possibile fare il passaggio di funzioni da giudice a pubblico ministero e viceversa una sola volta, e che questo avvenga nei primi dieci anni di carriera, mentre il referendum non ne prevede nessuno.

Che cosa succederebbe a questi referendum se la riforma della giustizia venisse approvata prima del 12 giugno? La legge che disciplina il referendum, la 352 del 1970, dice che se prima della data dello svolgimento del referendum «la legge, o l’atto avente forza di legge, o le singole disposizioni di essi cui il referendum si riferisce» vengono abrogati, l’Ufficio centrale per il referendum annulla il quesito. Una successiva sentenza della Corte costituzionale però aveva dichiarato l’illegittimità di questo articolo nei casi in cui la norma oggetto del referendum non sia abrogata prima del voto, ma modificata. A quel punto, è necessario fare un raffronto tra la norma che è oggetto del referendum e la nuova norma modificata per capire se il referendum ha ancora senso oppure no. Spiega Carlo Blengino, avvocato penalista: «Se l’abrogazione a cui si riferisce il referendum viene accompagnata da altra disciplina della stessa materia che modifica la legge oggetto del referendum ma non la abroga, allora a quel punto non si può bloccare automaticamente il referendum, ma bisogna fare una valutazione di merito».

Andrea Morrone, professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Bologna che sta per pubblicare con Il Mulino il libro La repubblica dei referendum. Una storia costituzionale e politica (1946-2022), spiega che «se la nuova legge interviene andando a soddisfare il fine del referendum, il referendum non avrà più corso. E a deciderlo sarà l’Ufficio centrale per il referendum, cioè la Corte Suprema di Cassazione, che è tenuta appunto a valutare se c’è un’effettiva concordanza di obiettivo». Sarebbe questo il caso del referendum sulle modalità di elezione dei membri togati del Csm: le modifiche coincidono e dunque votare quel quesito non avrebbe senso.

Per quanto riguarda le modalità di valutazione dei magistrati e la separazione delle funzioni, la riforma in discussione «interviene solo in modo parziale rispetto ai quesiti, li soddisfa solo in parte». È dunque possibile che, in caso di approvazione della riforma prima della data dei referendum, la Cassazione decida che quei due quesiti si votino comunque.

C’è un’altra ipotesi di cui tenere conto: se la riforma Cartabia venisse votata così com’è, ma successivamente al 12 giugno, e se i referendum venissero approvati, il comitato promotore potrebbe aprire un contenzioso davanti alla Corte costituzionale per capire se la nuova legge rispetti oppure no quello che viene definito il “verso del referendum”. Spiega Morrone: «Il parlamento, dunque, una volta approvati i referendum, potrebbe o decidere di farsi carico del loro esito e modificare la Cartabia in modo corrispondente o proseguire con l’approvazione della riforma così com’è con il rischio che si apra un contenzioso».

Fonte: I referendum sulla giustizia, spiegati – Il Post

Nove anni senza Don Gallo, il ricordo di Dori Ghezzi: “Mi manca il suo modo di concepire la vita, di dare le giuste dimensioni ad ogni cosa”

Don Andrea diceva che c’era il Vangelo secondo De André ma io dico che c’era anche il Vangelo secondo don Gallo”. A nove anni dalla scomparsa del prete “anarchico”, a ricordarlo per ilfattoquotidiano.it sono le parole di Dori Ghezzi, cantante e moglie di Fabrizio De André, con i quali il prete genovese aveva stretto un legame particolarmente affettuoso. Tutti ricordano il tributo a De André, a cui parteciparono i big della canzone, con in platea gli ultimi di don Gallo. Lui stesso raccontò: “Dori Ghezzi riservò 250 posti per me, e io mi presentai a teatro coi miei derelitti. Li feci sedere in platea, tre qui, due là, tossicibarboni, prostitute accanto a notai, dame e politici”. La cantante non ha mai dimenticato quella serata: “Avevamo deciso insieme di dare spazio ai senza tetto, ai rom, agli emarginati che si sedettero accanto alla ministra della Cultura Melandri e ad altri. Non solo. Quelle persone che avevano la possibilità, quella sera, di rivendere il loro biglietto ai tanti che volevano entrare, non lo fecero tenendosi ben stretto quel dono che avevamo fatto loro. Fu una serata irripetibile”.

Dori Ghezzi fatica a credere che siano già passati nove anni dalla morte di don Andrea. Quel 22 maggio lo ricorda molto bene e non nasconde un filo di nostalgia: “Le sue fotografie sono sempre qui davanti a me, ci aiuta anche così, la sua è ancora una presenza, non un’assenza. Ho avuto molti amici illustri ma lui, così come Fernanda (ndr Pivano) avevano una generosità eccezionale. Mi hanno sempre sostenuta in un modo unico ed importante nei momenti in cui ho avuto bisogno”. Un rapporto, quello tra la compagna di De André e il prete “di strada” che è diventato ancora più stretto dopo la morte del marito l’11 gennaio 1999: “Vivendo in parte in Sardegna, in parte a Milano, prima della scomparsa di Fabrizio, ci si vedeva poco ma il legame tra i due c’è stato da sempre. Si sono conosciuti grazie al fratello del Gallo che insegnava nel liceo di Fabrizio. E’ stato lui per primo ad accennargli che c’era a scuola un ragazzo speciale, che faceva particolari domande sulla fede”.

Il don e Faber “si trovavano bene insieme”, racconta Dori. “Fabrizio gli diceva spesso che lo ringraziava perché non aveva fatto nulla per costringerlo a guadagnarsi il paradiso. La pensavano allo stesso modo: non erano indottrinati. I valori che condividevano nascevano dentro la loro anima ed erano il rispetto per la vita e per la gente”. Dori Ghezzi sottolinea un aspetto che chi ha conosciuto don Andrea ha avuto modo di toccare con mano: “La sua forza era la persuasione. Non costringeva nessuno a comportarsi in un certo modo ma l’autostima che sapeva creare in chi aveva davanti portava le persone, soprattutto i più fragili, a non farsi del male”. Non manca un accenno all’ironia di don Andrea: “Era solito dire – narra Dori Ghezzi – che non sarebbe mai potuto diventare Papa perché papa Gallo sarebbe suonato male”. Nove anni senza don Andrea, per chi lo ha conosciuto alla Comunità di San Benedetto al Porto ma anche per i tanti che lo hanno ascoltato in uno degli innumerevoli incontri che ha fatto in ogni parte d’Italia senza mai dire un “no” a chi lo invitava, sono tanti ma l’immagine di quel prete con il cappello nero, con il toscano in bocca mentre sventola la sciarpa rossa, la bandiera della pace o canta “Bella ciao” è nel cuore di tutti: “Quello che più mi manca – dice la cantante – è come per Fernanda, il loro modo di concepire la vita, di dare le giuste dimensioni ad ogni cosa”.

Alex Corlazzoli (pubblicato da Il Fatto Quotidiano il 22/05/2022)

Fonte: Nove anni senza Don Gallo, il ricordo di Dori Ghezzi: “Mi manca il suo modo di concepire la vita, di dare le giuste dimensioni ad ogni cosa” – Il Fatto Quotidiano

‘Ndrangheta: dibattito al Liceo italiano di Buenos Aires

L Argentina e l’ Uruguay sono porti di transito del traffico di droga. L’impatto criminale che il fenomeno mafioso, ed in particolare quello della ‘Ndrangheta calabrese, ha sulla società, è stato illustrato oggi agli studenti del Liceo italiano ‘Cristoforo Colombo’ di Buenos Aires nel corso di un dibattito sul tema: ‘Le loro idee, le nostre gambe. Lotta al crimine organizzato nel mondo a 30 anni dalle stragi di Capaci e Via D’Amelio’, costate la vita ai magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Introdotto dalla professoressa Francesca Capelli, l’iniziativa ha permesso al capitano Marco Di Maggio, responsabile Sicurezza presso l’ambasciata d’Italia, di illustrare la dimensione ormai planetaria di una organizzazione come la ‘Ndrangheta, che conta 60.000 affiliati, 400 cellule operative in oltre 30 Paesi, e con un giro d’affari annuale di 25 miliardi di dollari, controllando il 40% del traffico mondiale di cocaina.

“Un esempio del volume di droga che l’organizzazione muove – ha detto Di Maggio – è che nel solo porto di Gioia Tauro sono state sequestrate negli ultimi tempi 14.200 chili di cocaina”.

L’azione di contrasto delle organizzazioni mafiose, ha ancora detto, è a tutto campo e non riguarda solo i Paesi produttori o quelli di arrivo, ma anche quelli di transito e di elaborazione, quali l’Argentina o l’Uruguay, come hanno provato gli arresti storici di Gaetano Fidanzati in Argentina nel febbraio 1990 e di Rocco Morabito, nel 2017 a Montevideo, poi fuggito e riarrestato nel 2021 in Brasile.

Il dibattito è stato chiuso dal direttore dell’Ufficio scolastico del consolato generale di Buenos Aires, prof. Giampiero Finocchiaro, che ha presentato un video da lui girato a Palermo in cui sottolinea non solo la necessità di una presa di coscienza, ma anche dell’impegno individuale contro la criminalità.

Maurizio Salvi

Si è conclusa a Montevideo la missione politica in Sudamerica del vicesegretario del PD Provenzano e del Senatore Porta

Con l’ultima tappa in Uruguay si è conclusa martedì 10 l’intensa e impegnativa missione sudamericana di una delegazione del Partito Democratico guidata dal Vice Segretario Peppe Provenzano; a integrare la delegazione il parlamentare eletto in America Meridionale Fabio Porta e il Vice Responsabile per l’organizzazione Eugenio Marino.   Due sono stati gli obiettivi della visita e quindi dei numerosi incontri avuti a San Paolo, Buenos Aires, Santiago e Montevideo: da un lato la ripresa e il consolidamento di relazioni politiche con partiti e movimenti del campo progressista e dall’altra il contatto con i circoli del partito e la collettività italiana.

A San Paolo una particolare attenzione è stata data alla business community italiana, con un incontro presso la Camera di Commercio italo-brasiliana; particolarmente significativa, poi, la visita al Museo dell’Immigrazione e all’Arsenale della Pace.   Sul fronte politico da evidenziare l’incontro con i candidati alla Presidenza e Vice Presidenza della Repubblica, Lula e Alckmin.

Anche a Buenos Aires una fitta agenda di incontri politici, con esponenti del governo in carica ma anche con i partiti socialisti e radicale.   Emozionante la visita all’ESMA e al Museo della Memoria.  In occasione della visita del Vice Segretario del PD è stata anche intitolata a David Sassoli la nuova sede del Circolo PD di Buenos Aires, poco prima dell’incontro con la nostra collettività presso i locali del Circolo italiano.   L’agenda nella capitale argentina si è conclusa con una tavola rotonda sui rapporti Europa-America Latina organizzata dal Circolo Berlinguer.

A Santiago del Cile la delegazione ha incontrato i Presidenti di Camera e Senato e i principali partiti che sostengono il governo del Presidente Boric.   Di grande valore storico e politico le visite al Museo della Memoria, al Palazzo della Moneta e al mausoleo di Salvador Allende.   Allo stadio italiano l’ex Ministro Provenzano ha incontrato i rappresentanti della comunità italiana e ha rilanciato il progetto sui talenti italiani all’estero, mentre il Senatore Porta si è intrattenuto con i consiglieri del Comites e i responsabili di associazioni, scuola italiana e Camera di Commercio sulle maggiori tematiche di interesse della collettività.

A Montevideo gli incontri di carattere politico hanno avuto un rilievo particolare, come anche la visita alla redazione del giornale “Gente d’Italia” per esprimere al Direttore Mimmo Porpiglia e alla redazione del giornale la solidarietà del Partito Democratico per i ripetuti attacchi che in questi mesi hanno mirato alla censura e alla chiusura dell’unico quotidiano italiano ancora in vita nel continente.

Questa visita, così articolata e intensa, ha costituito un forte segnale di presenza e continuità di azione politica da parte del più grande partito italiano; il PD vuole così confermare la sua scelta di stare a fianco degli italiani all’estero non soltanto in epoca di elezioni e di metterli al centro della propria iniziativa politica e parlamentare.

Referendum Abrogativi 2022 – Comunicato dell’Ambasciata d’Italia a Buenos Aires

Il 12 giugno 2022 si vota in Italia per 5 referendum abrogativi previsti dall’art. 75 della Costituzione e indetti con i decreti del Presidente della Repubblica del 06/04/2022, pubblicati nella Gazzetta Ufficiale, Serie Generale, n. 82, del 7/04/2022.

Sulla pagina web dell’Ambasciata d’Italia www.ambbuenosaires.esteri.it e sulle pagine web dei Consolati sono disponibili procedure e scadenze per garantire l’esercizio del voto a tutti gli aventi diritto in Argentina.

Correo Argentino (Correo Oficial de la República Argentina S.A.) recapiterà i plichi elettorali presso l’indirizzo indicato dall’elettore al proprio Consolato. Per raggiungere anche chi non dovesse trovarsi al proprio domicilio al momento della consegna, il postino lascerà un avviso che permetterà di ritirare personalmente il plico nei tre giorni successivi presso l’ufficio postale indicato.

Il plico contiene le istruzioni per l’invio del voto con la busta preaffrancata che dovrà pervenire al Consolato di appartenenza entro le ore 16:00 di giovedì 9 giugno.

Il voto è personale, libero e segreto. La busta con il voto va imbucata personalmente e non affidata ad altri.

Coloro che non avessero ricevuto il plico elettorale, potranno recarsi a partire dal 29 maggio al Consolato di appartenenza per ottenere un duplicato. I Consolati saranno aperti per il rilascio dei duplicati anche domenica 29 maggio, sabato 4 giugno e domenica 5 giugno, dalle 10.00 alle 13.00.

Tutti i nostri uffici sono pronti a ricevere ogni richiesta di chiarimento e segnalazione al fine di agevolare i connazionali nell’esercizio del proprio diritto di voto.

Apre il Museo dell’Emigrazione, racconta i viaggi della speranza degli italiani

Un progetto che da Genova “non guarda solo all’Italia, ma al mondo intero”. È stato inaugurato mercoledì 11 maggio il museo nazionale dell’emigrazione (Mei), frutto di mesi di lavoro dedicati a un progetto partecipato che ha coinvolto tantissime realtà sia italiane che del resto del mondo. La scelta della Liguria e in particolare di Genova, tra le varie città e regioni che si sono candidate a ospitare questo importante museo, è stata dettata proprio dal ruolo che questa città e il suo porto hanno avuto nella storia dell’emigrazione italiana. Anche la scelta della location, l’iconica commenda di San Giovanni di Prè, edificio del XII secolo, è pregna di significato: è stata per secoli luogo di accoglienza e punto di passaggio di un’umanità in transito, dai pellegrini alle crociate, fino agli emigranti dell’ottocento.

La struttura è stata rinnovata al suo interno grazie ai lavori di adeguamento funzionale e tecnologico realizzati in piena sintonia con la soprintendenza della Liguria, resi possibili grazie a un investimento del Mic e al contributo di fondazione Compagnia di San Paolo. Il percorso espositivo si sviluppa su 3 piani suddivisi in 16 aree, costruite intorno alle storie di vita dei protagonisti dell’emigrazione: le esperienze dei singoli sono proposte al visitatore attraverso fonti primarie come le autobiografie, i diari, le lettere, le fotografie, i giornali, i canti e le musiche che accompagnavano gli emigranti.

I dati sulle partenze, i ritorni, le destinazioni, il lavoro, la salute, l’alimentazione, il razzismo, l’accoglienza, le tante motivazioni diverse per lasciare l’Italia che rappresentano il grande mosaico della migrazione saranno restituiti al visitatore attraverso strumenti interattivi e multimediali. Ogni area del museo introduce un periodo della mobilità umana, dalla preistoria all’età medievale e moderna, ben prima della diffusione del concetto di “confine”.

L’emigrazione italiana non ha avuto solo la sua destinazione all’estero e non appartiene solo al passato. Per questo il museo racconta anche l’emigrazione interna, declinata nelle sue due grandi direttrici, dalla campagna alla città e dal sud al nord, e l’emigrazione contemporanea, con le forme che ha assunto dopo il 1973, anno del cambio epocale, in cui da paese di emigrazione l’italia diviene paese di immigrazione. All’interno del museo c’è anche uno spazio di riflessione, il memoriale, un’installazione artistica con un planisfero che mostra i luoghi di tragedie che hanno coinvolto l’emigrazione: dal naufragio del Sirio all’incendio della Triangle a New York, dai fatti di aigues mortes alla strage di Marcinelle, passando per disastri minerari e naufragi.

“Questo museo, Genova e i genovesi, lo dedicano a tutti quelli che sono qui a Genova ma provengono da altrove e poi anche a chi se n’è andato, anche io sono stato migrante, e non dimentico quella sensazione che si prova a partire e non sapere se si tornerà”. Così il sindaco di Genova Marco Bucci interviene in occasione del taglio del nastro del Mei, il Museo nazionale dell’emigrazione italiana inaugurato alla Commenda di Pré, riferendosi alla sua esperienza professionale negli Stati Uniti. “Questo luogo ospitava quelli che si imbarcavano per emigrare, ed è importante che sia la sede del museo – ricorda Bucci – da oggi deve essere sì uno spazio per la memoria ma anche un generatore di speranza di futuro, per quelli che ancora oggi hanno bisogno di migrare”. Secondo il sindaco il Mei non sarà “solo un tassello in più per l’offerta turistica ma anche per gli stessi cittadini genovesi”.

“Un luogo unico, pieno di multimedialità per rivivere le speranze, i dolori e i sacrifici degli emigranti italiani, storie che non possono essere dimenticate e che vanno tramandate alle future generazioni”. Così il ministro della Cultura, Dario Franceschini, in un messaggio inviato in occasione dell’inaugurazione del Museo nazionale dell’emigrazione italiana.

Fonte: Genova, apre il Museo dell’Emigrazione, racconta i viaggi della speranza degli italiani – la Repubblica

Nella foto di copertina il salone da pranzo del Hotel de Inmigrantes di Buenos Aires

Bestemmie e calcio, dal ‘sono toscano’ di Lippi alle 67 volte di Baldini: storie di squalifiche per quel rapporto sempre teso tra sacro e profano

L’uomo con il numero 94 sulle spalle si alza di scatto e si incammina verso la propria porta. Lo sguardo basso, le braccia larghe, l’espressione sconsolata sulla faccia. È già la terza volta che raccoglie il pallone in fondo al sacco. E se non fosse stato per la traversa e per l’imprecisione degli attaccanti avversari, le cose sarebbero andate addirittura peggio. È una beffa. Anche perché a condannarlo a quel pomeriggio di passione è stata una consonante. Perché contro l’Atalanta Ivan Provedel non doveva neanche esserci. Il giudice sportivo lo aveva squalificato per una giornata. Una settimana prima la Lazio aveva espugnato il Picco con un rotondo 3-4. E il portiere dello Spezia aveva accolto un gol degli ospiti con una fragorosa bestemmia. “Un’espressione blasfema, individuabile senza margini di ragionevole dubbio”, sentenzia il procuratore federale. Tradotto dal giuridichese vuol dire un turno di squalifica. Sembra una decisione come tante, invece è l’inizio di una battaglia legale che oscilla fra grottesco e il surreale. Visto che non c’è nessuna registrazione audio dell’imprecazione lanciata da Provedel, il moccolo può essere desunto solo da un’attenta lettura del labiale. Il che regala un eccesso di discrezionalità a chi lo esamina.

Le immagini, l’audio e i periti – Perché la differenza fra un dio e un diaz può salvare bestemmiatore e squadra al tempo stesso. Lo Spezia decide di fare ricorso. D’altra parte c’è anche un precedente che lascia ben sperare. A novembre Frattesi del Sassuolo aveva pronunciato il nome di Dio invano a favore di telecamera. Anche allora, in assenza dell’audio, si era giudicato il movimento delle labbra. I legali del club neroverde avevano proposto una chiave interpretativa diversa. Il loro centrocampista aveva esclamato “Porco zio”. E basta. La Corte sportiva d’appello s’era arrovellata. Questione di una consonante che cambiava, eccome, la sostanza. Alla fine i periti avevano accettato questa seconda versione, giudicandola “accreditata con uguali margini di verosimiglianza dalle relazioni di consulenza tecnica in atti”. Così la squalifica era stata cancellata. Esattamente lo stesso destino che è toccato a Provedel la scorsa settimana. È un teatro dell’assurdo che infrange ogni steccato della logica, che non segue il vero ma il verosimile. Ma che racconta soprattutto di quel rapporto morboso che lega insieme il nostro calcio e la bestemmia.

Verona, dove tutto ebbe inizio – Tutto inizia nel 1922 nella cattolicissima Verona. Il 29 luglio il cavalier Amedeo Balzarro viene folgorato da un’intuizione: istituire una campagna nazionale contro la blasfemia. L’idea piace talmente tanto da trovare che viene sposata addirittura da Vittorio Emanuele III. Così sul marmo cittadino, anche quello che adorna la passeggiata più in voga all’epoca, mani anonime vergano scritte anti imprecazioni. Le giornate dedicate al calcio vengono scandite dal motto: “Date un calcio alla bestemmia. Molti punti ma nessuna bestemmia. Non profanate lo sport”. Verona diventa il centro che propugna una nuova moralità, il ritorno alla rettitudine dei costumi. Con risultati altalenanti. Sessantotto anni più tardi la città otterrà un record piuttosto singolare. Mohamed Sami, un operaio di 35 anni che lavora in un’azienda tessile cittadina, decide di licenziarsi e iniziare a vivere per strada. Non ce la faceva più ad ascoltare i moccoli dei suoi colleghi autoctoni, dirà qualche tempo dopo a un responsabile della Cgil cittadina. È la prima volta che qualcuno decide di rinunciare a un contratto di lavoro per un motivo simile. Ma rischia di non essere neanche l’ultima: anche un altro marocchino che lavora nell’industria del marmo vuole lasciare la sua ditta. È musulmano, ma il malcostume resta sempre malcostume.

La svolta: Garbarini e il signor Melegali – Per anni la bestemmia rimane protagonista sotterranea, presenza effimera che non può essere catturata da riprese televisive ancora rudimentali. I calciatori biastimano, ma se ne accorgono soltanto loro. Tutto rimane così fino al 12 ottobre 1975. La Juventus gioca a Como. Ed è sotto per 2-1 a due giri di lancette dalla fine. Garbarini prende il pallone e lancia lungo. È un’idea che non piace a capitan Correnti, che avrebbe preferito ricevere la sfera sui piedi. “Garba! E porco… teniamo sto pallone che è finita!”, esclama il centrocampista. L’arbitro, il signor Menegali, ferma il gioco. Sugli spalti i tifosi non capiscono. Qualcuno crede che si tratti del fischio finale e inizia a lanciare in aria il cappello. Invece è punizione per la Juventus e ammonizione per Correnti. Capello tocca, Cuccureddu tira, Fontolan devia nella propria porta il pallone del pareggio bianconero. A fine partita l’allenatore del Como Beniamino Cancian è distrutto: “Tutti bestemmiamo in campo – dice – non è una bella cosa, ma succede sempre così. E noi dobbiamo perdere una vittoria ormai acquisita soltanto perché l’arbitro ci fischia una punizione contro perché uno tira un moccolo! È una cosa che non sta né in cielo né in terra. C’è da tirare qualche moccolo adesso, non prima!”.

Il toscano Ulivieri e il fratello di Albertini – Tutti i tentativi di eradicare la bestemmia dalla società sono destinati a fallire. Perché non c’è niente di più rassicurante di una cattiva abitudine. La blasfemia si ritaglia uno spazio sui giornali italiani. Nella cronaca, nella critica sociale, in qualche intervista a preti e prelati. Nel 1989 (sempre) a Verona psicologi e professori universitari danno vita a uno studio. Il 72% degli intervistati dice che il linguaggio blasfemo è più radicato nei bar, il 51% che è altrettanto presente nei posti di lavoro e il 29% negli ambienti sportivi. L’86% del campione, però, si trova in disaccordo con l’espressione “quando uno si arrabbia ha il diritto di bestemmiare”. Non è molto, ma è già qualcosa. Nel marzo del 1996 padre Sebastiano Bernardini, allenatore della Nazionale dei frati Cappuccini, afferma di voler sottoporre all’attenzione del Coni e della Figv una sua proposta. “Le vittime indirette di queste imprecazioni sono i bambini”, dice. Quindi le società devono essere multate e i bestemmiatori devono essere non espulsi, ma sospesi dal gioco per 3 minuti. È una proposta che non verrà mai accolta. Anche perché come disse una volta Renzo Ulivieri: “Se la bestemmia fosse davvero reato ci darebbero l’ergastolo”. Demetrio Albertini, invece, ha un fratello sacerdote. E giura di averlo utilizzato per far smettere di bestemmiare l’intero spogliatoio del Milan. “Ricordo bene di essere corso a rimproverare compagni anche molto più famosi di me. Senza problemi – ha detto una volta a La Gazzetta dello Sport – Perché il problema è loro, io glielo ricordo. Chi non riesce a dominare i propri nervi su un campo di calcio non riuscirà a farlo nemmeno nella vita”.

Il c.t. Lippi e il “modo di parlare nostro” – Il novembre del 1998 è un mese particolarmente florido per le bestemmie nel calcio italiano. Simone Inzaghi viene squalificato per aver biastimato due volte contro l’arbitro. Poi tocca a Marcello Lippi. A dieci minuti dalla fine di Udinese-Juventus viene fischiato un fuorigioco ai bianconeri. L’allenatore corre fuori dall’area tecnica e spara un moccolo contro l’arbitro. Così viene squalificato in vista della trasferta in casa della Roma. “È vero, ho bestemmiato – ammette Lippi – e certamente non avrei dovuto. Mi dispiace. Ma sono toscano, certe cose mi escono senza intenzione, bestemmio tremila volte al giorno. Sul referto è stata scritta la verità, però francamente la sanzione decisa dal giudice mi sembra eccessiva. Sui campi se ne sentono di tutti i colori ed essere squalificato per una gara importante francamente mi dà fastidio”. Sei anni più tardi Lippi diventerà c.t. della Nazionale. E dopo aver subito un gol dalla Slovenia inizierà a imprecare un paio di volte contro l’Altissimo a favore di telecamera. Più del risultato a far montare la polemica sono le bestemmie dell’allenatore azzurro. “Capisco che l’Italia è un Paese cattolico e non ha la filosofia toscana, ma se dico che ho tirato un paio di bestemmie in maniera scherzosa, subito spunta un cardinale… Si tratta solo di un modo di parlare nostro”.

Le 67 volte di Silvio Baldini – La caccia alle streghe si trasforma in Santa Inquisizione nel 2001. A novembre il commissario della Figc Gianni Petrucci annuncia il pugno di ferro. Tutti i bestemmiatori saranno perseguiti. Il primo a finire nei guai è Silvio Baldini. Nella gara contro la Salernitana l’allenatore smoccola contro l’arbitro. Per 67 volte, scrive nel referto il quarto uomo. “Non mi ricordo se ho bestemmiato – dice il mister – ma se è successo, è giusto che mi abbiano squalificato”. Qualche anno dopo cambierà versione: “Alt: ho soltanto detto zio cane, il quarto uomo ha sentito ed equivocato. Il Trap può farlo e io no? Ho la coscienza a posto, l’ho detto anche a don Claudio, il padre spirituale del Brescia, una grande persona. Gli ho assicurato che si trattava di un semplice intercalare”. E proprio monsignor Paganini spiegherà: “Quando Baldini allenava il Catania mi chiamò perché aveva problemi con alcuni giocatori che non gradivano le sue bestemmie. Sono andato lì per spiegargli che quello suo è solo un intercalare”. Poco dopo tocca a Vavassori e a Mimmo Di Carlo. Il momento più alto viene toccato due settimane più tardi.

Novellino pentito e il puritanesimo di don Mazzi – Il Piacenza di Novellino sta pareggiando a San Siro quando l’allenatore bestemmia contro una decisione dell’arbitro. La squalifica è inevitabile, ma l’intervista di Novellino al Corriere della Sera diventa una pietra miliare sull’argomento. “Sono pentito. Sono un cattolico praticante ed è giusto che paghi – dice – però gli stranieri sono avvantaggiati: chi si è accorto se Terim smoccolava in turco? E Sukur? E gli ucraini, i giapponesi, gli iraniani, gli olandesi?”. E ancora: “Mia moglie ha visto 90° Minuto e mi ha chiamato subito: ‘Walter questa volta ti squalificano, ti sta bene così impari’. I miei figli mi conoscono, sanno che appena posso vado in chiesa. Vedermi dipinto come un bestemmiatore di professione dai giornali mi ha dato fastidio. Quello non sono io”. Anche don Mazzi è scettico: “Punire allenatori e giocatori perché bestemmiano? – dice – Non capisco quale tipo di messaggio si vuole trasmettere con questo puritanesimo da copertina. Questa è l’ultima sparata di un mondo contraddittorio”. Tre anni dopo, nel ritiro dell’Italia agli Europei, a Buffon (un abitudinario dell’imprecazione blasfema) scappa una bestemmia in allenamento. Trapattoni non gradisce e sottolinea: “Se non pari un rigore a Materazzi, cosa c’entra la Madonna?”.

Diritto di espressione e la gigantografia della Madonna – Il 2010 è l’anno della svolta. Petrucci chiede un altro giro di vite. I blasfemi saranno puniti con il cartellino rosso. FifPro, il sindacato internazionale dei calciatori, non ci sta. “Come chiunque altro i giocatori hanno il fondamentale diritto di espressione: ognuno può dire ciò che vuole, anche se può essere spiacevole”, dice l’avvocato Wil Van Megen. “Se la Figc vuole punire la bestemmia – aggiunge – lo può fare solamente con l’appoggio del ministero della Giustizia. Ma nessun governo ha fatto qualcosa del genere negli ultimi 100 anni”. Petrucci è allibito: “Hanno perso un’occasione per stare zitti”. Ma il problema è che la blasfemia sembra fin troppo radicata nella cultura del Paese. A ottobre l’Espresso pubblica un video. Si vede il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che racconta una barzelletta. E tutto termina con una bestemmia. Il mondo della politica esprime il suo disgusto, quello religioso insorge. “Ci mancava solo la bestemmia”, scrive Avvenire. Qualche mese dopo il Mussetta 2010, squadra che milita in Terza categoria, adotta un rimedio casalingo: per evitare espressioni blasfeme ecco che a bordo campo viene collocata una gigantografia della Madonna. Un’idea che non sfiora neanche il sindaco di Montegrotto (Padova), che decide di chiudere un campetto vicino a una chiesa per eccesso di moccoli. Nel nostro calcio si va avanti così per anni. Chi bestemmia viene squalificato. Il più sfortunato è Bryan Cristante della Roma. Nel dicembre 2020, contro il Bologna, prima si fa autogol e poi se la prende con la famiglia santa. È una doppia beffa. Perché viene anche squalificato. I moccoli diventano problema condiviso poco più tardi. Nel campionato del Vaticano un calciatore perde la testa per una decisione dell’arbitro e inizia a bestemmiare a perdifiato. Viene squalificato per tutta la stagione. Ma lì, forse, la differenza fra un Dio o un Diaz non è poi così importante.

Andrea Romano (pubblicato da Il Fatto Quotidiano il 14/05/2022)

Fonte: Bestemmie e calcio, dal ‘sono toscano’ di Lippi alle 67 volte di Baldini: storie di squalifiche per quel rapporto sempre teso tra sacro e profano – Il Fatto Quotidiano

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