La caciatta degli italiani dalla Libia – di Vincenzo Nigro

“Gli italiani in Libia avevano tutto: la casa, il lavoro, la famiglia, un’esistenza dignitosa, perfino felice. Avevano una vita. Forse perfino una Patria. Diversa da quell’Italia, estranea e indifferente, in cui si rifugiarono quando nel 1970 il colonnello Muhammar Gheddafi decise di espellerli. Buttarli fuori da un Paese che non era loro, ma che loro avevano contribuito a costruire. Come dice Roberto Costantini, uno degli italiani di Libia ancora oggi più attivi, “i più sfortunati per molti anni furono trasformati in profughi, costretti a vivere nei campi per rifugiati. Eventi che cambiano la vita: l’improvvisa povertà e l’umiliazione furono per la maggior parte di chi aveva una certa età un punto di non ritorno””. A parlarne è Vincenzo Nigro, in questo pezzo pubblicato su “La Repubblica”.

“Esattamente cinquant’anni fa, fra il 7 e il 15 ottobre del 1970, si compì dunque l’epilogo di un esodo che trasferì in Italia gli eredi dei primi coloni. Dopo un’estate di crescente ostilità anti-italiana, ci fu la cacciata definitiva. Tutto in poche settimane: il 9 luglio Gheddafi pronunciò a Misurata un primo discorso durissimo contro gli italiani, contro i figli del colonialismo fascista. Il 9 luglio del 1912, pochi mesi dopo lo sbarco in Libia dell’Italia giolittiana, il Regio esercito aveva conquistato proprio Misurata, seconda città della Tripolitania. E Gheddafi ripercorreva le tappe della storia dell’invasione coloniale italiana, per rovesciarne il corso.

L’Italia monarchica aveva strappato la Libia all’impero ottomano in disfacimento nel 1911. Il regime fascista aveva poi accelerato e anche migliorato la colonizzazione soprattutto a partire dagli anni Trenta, in uno scenario di devastazioni militari e stragi indiscriminate, ma anche di urbanizzazione, di costruzioni senza pari nella storia della Libia. Soltanto Italo Balbo diede il suo nome alla via “Balbia” che univa il confine tunisino a quello egiziano: 1822 chilometri rispetto – ad esempio – ai 760 dell’Autostrada del sole.

Il fascismo perde la Seconda guerra mondiale, la Libia rimane sotto amministrazione britannica. Dal 1950 le Nazioni Unite riconoscono il Paese indipendente, lo affidano alla monarchia di re Idris, che con l’Italia firma un trattato nel 1956. L’Italia paga i danni per la colonizzazione, trasferisce al regno di Libia tutte le proprietà pubbliche e ottiene in cambio protezione per gli italiani rimasti a vivere nel Paese.

Nella notte fra il 31 agosto e il 1° settembre del 1969 il regno di re Idris crolla in poche ore sotto i colpi dei giovani ufficiali filo-nasseriani guidati dall’allora 27enne tenente Gheddafi. La monarchia in Libia nei fatti era finita da mesi: dopo la “guerra dei 6 Giorni” del 1967 contro Israele, quella in cui tutti gli stati arabi si schierarono contro lo stato ebraico, tranne la Libia che non mandò soldati contro Israele. Metà della popolazione e metà dell’esercito ormai erano furiosi col mite re Idris. Erano gli anni del presidente egiziano Nasser, del mito di Nasser, popolare nella nazione araba come un John Kennedy, acclamato anche dopo la sconfitta in guerra.

In quel settembre 1969 l’ambasciatore d’Italia a Tripoli era ancora Carlo Calenda, nonno del leader politico di oggi. Calenda era un diplomatico energico, attivo, mai distratto: capì dal primo momento come sarebbe andata a finire con Gheddafi, e lo scrisse nei suoi telegrammi a Roma. Il colonnello e la sua giunta militare – scriveva Calenda – useranno in ogni modo gli italiani rimasti in Libia per costruire una narrativa “rivoluzionaria” da vendere al popolo, con gli eredi dei colonialisti che inevitabilmente dovranno essere espulsi per dare forma alla nazione libica.

Andò a finire così: dopo il discorso di Misurata, il 21 luglio Gheddafi emanò il decreto di confisca che serviva a “restituire al popolo libico le ricchezze dei suoi figli e dei suoi avi usurpate dagli oppressori” italiani. “Fu la confisca totale, di tutto quello che avevamo”, ricorda Giovanna Ortu, che da anni è la presidente e il motore stesso della Airl, l’Associazione dei rifugiati italiani di Libia. “Ci portarono via tutto, i conti in banca, le case, le aziende agricole, le automobili, perfino le macchine da cucire… furono giorni terribili, in lotta con la burocrazia libica perfino per avere i famigerati “certificati di nullatenenza” necessari per poter essere autorizzati a partire”.

La contabilità delle nuove autorità libiche fu meticolosa: vennero acquisite 372 fattorie per 37 mila ettari; 1750 case, ville e appartamenti, 700 negozi, magazzini, ristoranti, supermercati, cinema e studi professionali, 1200 fra auto, camion aerei e macchine agricole.

Il 7 ottobre Gheddafi emana il decreto finale, quello di “espulsione” secondo cui entro il 15 ottobre l’ultimo italiano dovrà aver lasciato la Libia. “Noi avevamo un’azienda agricola di 600 ettari, un palazzo in città”, ricorda Ortu, “all’aeroporto perquisirono mia madre anche nei capelli, per controllare che non portasse via un gioiello qualsiasi che sarebbe potuto servire alla famiglia una volta rientrati in Italia”.

Erano arrivati in Libia nel 1911 con il governo di Giovanni Giolitti; gli italiani venivano espulsi nel 1970, ai tempi di Moro e Andreotti.

L’accoglienza in Italia fu fredda: da molti erano visti come gli ultimi fascisti, i reduci del regime in Africa. Alcuni di loro si riunivano e conservarono inevitabilmente alcuni dei riti del fascismo, ultimi ricordi del periodo felice e normale vissuto in Libia. Le riunioni con le camicie nere, il saluto fascista, il rimpianto perenne di una vita in Libia che era stata consumata sotto la protezione e la guida del regime fascista.

In Italia questo carattere spesso veniva attribuito generalmente a tutti i 15 mila profughi, suscitò distanza: innanzitutto nel Pci, che già aveva una forte influenza sulla stampa, su buona parte della narrativa che li presentava al Paese. Poi nella stessa Dc, che vedeva questi italiani di Libia come una anomalia capace di turbare l’azione di governo, le aperture di Moro e Andreotti al mondo arabo. Gli unici a difendere i profughi, chiaramente, furono i militanti dell’Msi che li accolsero con gagliardetti e camicie nere. Peggiorando a volte se possibile la percezione di questi italiani d’Africa.

“Questa è stata la nostra traversata, costretti a farci accettare da una nazione che non ci conosceva”, dice Giovanna Ortu. L’unica battaglia in cui hanno potuto impegnarsi in concreto è stata quella dei risarcimenti per gli espropri subiti del regime libico, decisi da Gheddafi contro il Trattato del 1956. Risarcimenti che lo Stato italiano non ha voluto ancora pagare fino in fondo, oppure ha versato col contagocce, come elemosine.

Fascisti o antifascisti, cristiani o ebrei, gli italiani di Libia forse condividono ancora un sentimento comune: quello di aver perduto, di essere stati espulsi da una piccola patria africana. Ma di non essere stati accolti fino in fondo dalla grande Patria italiana”. (aise) 

Fonte https://www.aise.it/rassegna-stampa/la-cacciata-degli-italiani-di-libia-di-vincenzo-nigro/151131/157