Il professor Claudio Morandi, nato in Provincia di Mandova e laureatosi in Lettere con indirizzo moderno alla Facoltà di Lettere e Filosofia presso la Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, con innumerevoli altre specializzazioni post lauream, ha lavorato per anni nella Scuola Cristoforo Colombo di Buenos Aires, nel Centro Culturale di Olivos, nella Scuola Leonardo da Vinci de la Plata e anche nella Scuola Italiana di Montevideo, sia come professore sia come preside. E’ una persona che ha lasciato un meraviglioso ricordo di sé tra gli ex professori e gli ex alunni di quelle scuole che gli sono molto legati, in effetto mi sono spianta a fargli un’intervista per costituirmi in un ponte virtuale tra lui e loro, unire il passato con il presente.
E’ professore dal 1973, prima a Mantova, poi al Cario, in Argentina e anche in Uruguay, quale l’aspetto della Sua professione che Le piace di più?
Non è facile rispondere perché professione e vita in un docente si intersecano in modo indissolubile, almeno per me. Credo che una delle caratteristiche che ti offre questa professione, almeno per chi la sceglie per vocazione e non per altre ragioni, è il suo dinamismo sia perché ti obbliga a una continua interazione con le giovani generazioni, e non è una sfida di poco momento, sia perché professionalmente si è chiamati a un continuo aggiornamento. Sono sempre stato uno spirito inquieto e curioso. Nato nella “bassa pianura padana” in un villaggio minuscolo, nel periodo difficile del dopoguerra, con pochi mezzi e molte illusioni, il mio universo era costituito dai miei libri e dal desiderio bruciante di conoscere il mondo.
Crede che al giorno d’oggi il latino e il greco siano ancora utili per la formazione dei giovani o che siano sufficienti le scienze esatte o le materie tecnologiche come l’informatica e la robotica?
La mia formazione è classica essenzialmente e quindi mi sento molto partigiano e poco obiettivo di fronte a questa domanda, credo fermamente che il mondo classico costituisca lo zoccolo duro della nostra civiltà occidentale e non intendo solo quella del mondo delle lettere e della filosofia, che pure grandissima parte hanno avuto, ma anche la scienza. In ogni caso ricordo che la lingua veicolare della cultura europea, in tutte le università fino al settecento, è stato il latino, così come oggi è l’inglese.
Non c’era trattato di filosofia o di scienza che non fosse scritto in latino. Ma io penso soprattutto al grandissimo patrimonio di poesia che il mondo classico ci ha lasciato e quali strumenti più idonei ad attingere a questo tesoro se non il greco e il latino? Parrebbe un discorso passatista nell’era cibernetica eppure molto spesso grandi imprese o importanti istituti bancari cercano giovani laureati in Lettere o in Filosofia, non solo per la duttilità della loro mente in grado di apprendere facilmente i funzionamenti della tecnica o dell’economia, ma anche per la qualità umana per quel QUID in più che possiedono rispetto a chi ha una preparazione esclusivamente tecnica.
Lei hai avuto una formazione classica, ha studiato arte, fotografia, lingue, come si sente nel mondo attuale in cui bisogna usare programmi informatici e dare lezioni su Zoom.
Non sono un parruccone, un insensato LAUDATOR TEMPORIS ACTI, sono un curioso, come ti ho detto, quindi mi interessa tutto ciò che di nuovo appare nell’ambito della didattica e che possa essere utile all’apprendimento. Non ho mai demonizzato gli strumenti informatici, al contrario, come coordinatore didattico, soprattutto nella Scuola Italiana di Montevideo, la mia ultima esperienza lavorativa formale, ho promosso corsi di aggiornamento ai colleghi sull’uso delle TIC, come utilizzare al meglio le possibilità della LIM e in particolare come trasformare il “diabolico” telefonino in uno strumento di apprendimento, ci sono a proposito dei programmi interessantissimi per l’insegnamento di varie discipline, scaricabili attraverso le app del cellulare!
Per parlare delle piattaforme informatiche che permettono la teleconferenza, intendo zoom o google meet, in tempo pandemico uniche possibilità di DAD, le ho utilizzate ultimamente con i miei alunni di Moron, dove per tre anni, nella Società Italiana, ho insegnato Italiano come L2 agli adulti, devo dire che un certo beneficio hanno sortito “fault de mieux”, è pur sempre una forma palliativa.
Pensa che le lezioni virtuali possano sostituire quelle in presenza o che l’interesse e l’affetto dei docenti non possano essere mediati da uno schermo?
Dicendo che la DAD è un palliativo intendo dire che la lezione in presenza è insostituibile, non solo perché più dinamica ed interattiva per non essere “mediata” da uno strumento elettronico che a volte fa pure i capricci! ma soprattutto per il fatto che viene meno quella parte della comunicazione non verbale che ha un peso grandissimo nel rapporto didattico tra docente e discente. L’insegnante è anche una sorta di istrione che può creare atmosfere, un clima di tensione didattica che nessuno strumento tecnico può sostituire.
Cosa rimpiange maggiormente della Sua vita d’insegnante? Le illusioni di quando era giovane o la maturità con cui ha affrontato gli anni d’insegnamento nelle scuole in America Latina?
Io mi ritengo fortunato perché nel mio lavoro ho potuto coniugare le passioni che ho sempre avuto fin da giovane, l’insegnamento e conoscere il mondo. Avere vinto il concorso presso il MAECI per insegnare all’estero è stato un vero colpo di fortuna. Ho conosciuto soprattutto l’Egitto, il Cairo, dove ho lavorato nel Liceo Scientifico Italiano S. Francesco d’Assisi per cinque anni, ma ho avuto pure la possibilità di essere in commissione d’esame a Mogadiscio e ad Addis Abeba. Trasferito in Argentina, ho cominciato la mia esperienza lavorativa alla Cristoforo Colombo, dove pure ho avuto in due periodi successivi, la responsabilità della direzione didattica.
Devo senz’altro ammettere che la mia formazione umana e professionale sia avvenuta proprio qui. A contatto con culture diverse, di fronte a problematiche sociali e umane alle quali non ero abituato, mi ha aperto un orizzonte che sicuramente non avrei neppure intravisto se fossi rimasto a insegnare nella mia pur bellissima Mantova. Mi sono sprovincializzato e Buenos Aires ha contribuito in modo sostanziale a questa mia maturazione. Non ho rimpianti, mi sento realizzato!
Per quale ragione crede che molta gente si ricordi di Lei con affetto?
A questa domanda non saprei cosa rispondere, credo che lo dovrebbero fare i miei ex alunni e sarebbe molto interessante anche per me sapere la risposta. Per quel che mi riguarda, sicuramente anche come credente, ho sempre avuto un enorme rispetto dei miei alunni, prima di tutto cercando di essere un buon docente, ho sempre scrupolosamente preparato le mie lezioni, poi cercando di dimostrare con l’esempio della puntualità dell’accuratezza della persona che erano le persone più importanti per me e che loro avrebbero dovuto fare lo stesso tra di loro e con tutti i docenti.
So che Le chiedono spesso di tornare a Scuola ma che non accetta, perché? Considera indispensabili la forza e la vivacità per insegnare?
Ormai ho settantatré anni e qualche acciacco, credo che con i giovani bisogna avere energia e non un eccessivo GAP generazionale, se non c’è intesa a vari livelli il rischio che il dialogo didattico si inceppi. Sono convinto che ciascuno sappia quando è giusto tirare i remi in barca e lasciare ai giovani insegnanti il dovuto spazio.
A parte questo periodo di chiusura per il Covid considera che i ragazzi siano cambiati dal 1973 ad ora e che di conseguenza ci sia stata la necessità di un aggiornamento costante nel modo d’insegnare?
I ragazzi sono senza dubbio cambiati, ma ci sono delle costanti che non mutano nel tempo: la voglia di avere uno spazio loro, il desiderio di essere ascoltati e non giudicati, una grande voglia di affetto in particolare nella solitudine in cui spesso si trovano nonostante la fuorviante eccessiva comunicazione, l’essere considerati individui con i propri gusti e i propri pensieri.
Per quanto riguarda l’aggiornamento, ricordo che in uno dei parecchi corsi a cui ho partecipato, un docente disse che gli insegnanti che iniziano la loro carriera studiano i primi quattro anni e poi, per il resto della loro vita professionale, ripetono le stesse cose studiate in quegli anni. Mi parve terribile, ma credo che un fondo di verità purtroppo ci sia.. Io che ho sempre amato studiare e che avrei voluto essere studente tutta la vita, non ho mai smesso di farlo, non tanto per coltivare alcuni pruriti culturali che pure avevo e che ho sacrificati, ma per poter conoscere meglio le discipline che insegnavo e per arricchire la mia esperienza didattica per trasmetterle con maggiore efficacia. Un insegnante che non studia e non si aggiorna è un burocrate non un docente!
Perché ha scelto di restare qua?
Domanda difficile a cui potrei dare anche risposte contraddittorie. La mia vita professionale, come ho detto si è realizzata qui, ma anche la mia vita come uomo che ha ordito una profonda rete di affetti e di conoscenze. La stimolante vita di questa città che è al tempo stesso metropoli e provincia nei suoi quartieri più tradizionali, le offerte culturali, la possibilità di continuare a insegnare fino alla mia veneranda età, tutto ciò non l’avrei avuto nella mia città e in Italia in generale e che pure amo come il mio paese quello che mi ha dato la mia identità, dove risiede parte della mia famiglia e che è uno scrigno di straordinari tesori.
Non si trova più a Suo agio in Italia? Cos’è cambiato?
Come corollario della risposta precedente, dopo più di quaranta anni di vita fuori dall’Italia, quando rientro mi sento un “pesce fuor d’acqua” non ne intendo più i meccanismi soprattutto quelli fiscali e burocratici in generale, sento insomma che mentre io sono cambiato, anche l’Italia che conoscevo è cambiata, camminiamo su binari diversi; mi piace andarvi in vacanza, non c’è dubbio, ma non potrei più viverci normalmente senza un grande sforzo e sacrificio.
Ormai la mia vita è qui e mi sento realizzato qui.
Edda Cinarelli